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IL PONTE
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plotone fanteria e artiglieria di montagna
ANNO 4 - N.6 (Versione web - anno 1 n.3) NUOVA SERIE DICEMBRE 2000

IL RACCONTO

Pubblichiamo un breve racconto scritto da un quattordicenne che, insieme ai suoi compagni della III A della scuola media santangiolina, ha partecipato al lavoro di ricerca storica sulla prima guerra mondiale svolto lo scorso anno dalle classi terze e pubblicato come inserto speciale del "Ponte"( n. 3, 2000). La fantasia di Andrea Lapolla, sollecitata da quanto ha imparato nel corso della ricerca, lo ha portato a immedesimarsi in quelle tragiche vicende storiche e a scrivere questo breve racconto che, considerata anche la giovane età dell'autore, ci sembra assai meritevole di segnalazione e pubblicazione.

Angelo Montenegro

Il volo di uno sparviero

Nel maggio del 1915, a me e a mio padre, arrivò la cartolina e partimmo subito per il fronte. Arrivati, ci diedero divise e armi e ci inviarono in due diversi plotoni: io ero nella 156° fanteria, mio padre nel 3° artiglieria di montagna. Mio padre era già andato in guerra e lì lo avevano soprannominato "lo sparviero" per la sua vista acuta. Io ero uno dei tanti soldati di leva, allora avevo 18 anni e al fronte conobbi molti coetanei: non ero preparato alla guerra e avevo la grande paura di perdere la vita, come del resto tutti noi giovani. I soldati anziani cercavano invece di nasconderla, la paura, dietro l'elmetto e ci rassicuravano con una finta sicurezza: tra questi ce n'era uno in particolare: Si chiamava Giovanni, detto il "gigante buono". Veniva da Asti. Era un omone dagli occhi di ghiaccio, che mi fece timore quando lo incontrai per la prima volta, ma che, invece, aveva un animo buono e generoso; mi stava sempre accanto per guidarmi e sorreggermi nel momento del bisogno.

In trincea ci si conosceva già tutti e bisognava andare d'accordo e saper convivere, dato che lo spazio era limitato: di brande ce n'erano poche e non bastavano per tutti quindi si facevano i turni; eravamo ammassati e anche i viveri erano razionati.

Comunque questi disagi erano futili: il vero problema era là fuori, a poche decine di metri da noi.

Nel bel mezzo della notte ci chiamarono: era in corso un'incursione nemica! Ci preparammo subito, imbracciai il mio fucile e andai a combattere. Davanti a me le truppe tedesche attaccavano con ferocia, molti di loro cadevano , mi guardavo intorno attonito. Il "gigante buono", che era a fianco a me, si accorse che non stavo sparando; infatti mi tremavano tanto le mani che non riuscivo nemmeno a reggere il fucile. Non ero capace, non avevo la forza di abbattere un uomo.

Lo scontro durò poche ore, ma molti miei compagni non tornarono in trincea, morti dilaniati dalle schegge delle granate o sotto il fuoco incessante della mitragliatrice.

I giorni seguenti furono un continuo combattimento e l'infermeria era un brulicare di feriti. Le condizioni pessime della trincea poi facevano il resto: il poco cibo e la sporcizia erano cause di malattie virali di cui sovente si periva. Ad uno ad uno morivamo e non c'era niente da fare.

Passarono molti mesi e la situazione non cambiava, sempre noi e loro, uno di fronte all'altro. L'unica cosa che ci faceva andare avanti era il pensiero dei nostri cari, a casa. Io pensavo spesso a mio padre, alla mia famiglia, alla vita che facevo a Sant'Angelo e soprattutto a Lucia, la mia fidanzata; ogni notte mi ricordavo del suo viso segnato dalle lacrime quando l'avevo salutata l'ultima volta per andare a combattere. Sì....per andare a combattere una guerra di cui non vedevo il significato, una guerra che divideva le famiglie e uccideva milioni di persone per semplici questioni di confine fra gli stati.

Questi ricordi nella mente ci facevano evadere dalla trincea per tornare anche solo un momento alla nostra cara bella vita di paese.

Era un giorno di pioggia battente quando arrivò per telegrafo una notizia urgente. L'addetto al telegrafo continuava a decifrare il messaggio, una lunga serie di ticchettii apparentemente sempre uguali. Ad un certo punto l'incessante ticchettare finì e il viso del telegrafista cambiò espressione, solcato da una profonda amarezza. Si alzò e, camminando lentamente tra il fango, mi si avvicinò e mi diede la tragica notizia: mio padre era morto! "Lo sparviero è stato abbattuto", mi disse. Non potevo crederci; fui assalito dalla disperazione: 100 proiettili delle mitragliatrici tedesche non sarebbero state nulla in confronto. Sarei stato capace di buttarmi tra le truppe nemiche, se non ci fosse stato Giovanni a trattenermi e a confortarmi.

Era morto durante una spedizione tra i ghiacciai delle Alpi: lui e la sua squadra erano stati sorpresi dalle truppe austro-tedesche che avevano teso loro un agguato e li avevano uccisi uno ad uno, brutalmente, come bestie. Durante la guerra bisognava guardarsi sempre alle spalle, nessuno aveva pietà di nessuno. Ormai mi ci ero abituato e portare il corpo di un mio amico in una fossa - terribile a dirsi - non mi faceva più né caldo né freddo.

Era passato un anno ed ora avevamo di fronte il Piave che lentamente scorreva davanti ai nostri occhi. Poco tempo prima quell'acqua si era tinta di rosso e gli scoppi delle granate le alzavano in spaventose volute. Gli austriaci volevano sfondare il fronte e noi dovevamo resistere a tutti i costi. "Il Piave mormorò: non passa lo straniero!" cantavamo. E infatti il nemico non passò oltre. Il fiume era con noi, viveva i nostri stessi momenti, ci era testimone; e ci fu testimone anche durante la nostra grande offensiva. Eravamo molto caricati e decisi a vincere.

In un'alba nebbiosa decidemmo di contrattaccare: dopo un bombardamento infernale con cannoni da 305 tutte le truppe si lanciarono all'assalto. Anche noi uscimmo dalla trincea e avanzammo decisi; i fucili nemici non potevano fare niente contro di noi, eravamo in troppi. Così li sconfiggemmo e i pochi austriaci rimasti scapparono in disordine volgendoci la schiena. Le cose si mettevano bene: tutte le linee nemiche furono sfondate.

La guerra finì. Dopo molto tempo un sorriso mi tornò sul viso e cominciai a piangere. Perfino il "gigante buono" aveva gli occhi lucidi per la felicità. Eravamo al settimo cielo: era come se, per tutto il tempo, fossimo stati nel buio e in quel momento la luce ci avesse inondati con tutto il suo splendore. Poi alzai gli occhi al cielo e, con mio grande stupore, vidi uno sparviero volare alto, con eleganza e maestosità.

In quell'istante rividi mio padre e pensai : "Ho vinto per te papà!".

Andrea Lapolla

 

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