Mestieri di una volta
I tupè
Quello dei cacciatori di talpe, i tupè, è un lavoro strano, antico, poco conosciuto e che da noi si è estinto qualche anno dopo la seconda guerra mondiale. Non c'erano soltanto i contadini che per arrotondare la paga mettevano qualche trappola nei campi, anzi, la figura del tupè, che scendeva dalle montagne fino in pianura, è da collegarsi ad un tipo di economia rurale molto diversa.
Datori di lavoro erano i fittavoli, che dovevano liberarsi dal flagello delle talpe nei campi. I tupè arrivavano con la neve, attorno ad ottobre-novembre e tornavano a casa in marzo. Si sistemavano perlopiù nelle cascine del territorio, ospitati dagli agricoltori.
A Sant'Angelo però, un gruppetto di questi montanari, che arrivava dalla provincia di Novara (un padre con alcuni figli), per qualche anno soggiornò nella stalla di un'osteria di via Madre Cabrini (conosciuta come quella del sciur Pepén de Nunsiada). Il lavoro iniziava nel pomeriggio, quando il tupè andava nei campi e piazzava le trappole, fatte in ferro e a forma di V: metteva all'interno un sasso, quando la talpa ci passava sopra lo spostava e restava imprigionata, come in una specie di tagliola.
Importante era capire dove piazzarle: un buon tupè riconosceva i cumuli di terra creati dagli animali e da questi individuava le lunghe gallerie sotterranee che erano in grado di scavare in poco tempo. La mattina poi faceva il giro dei campi e raccoglieva le talpe catturate nella notte. Le portava allora al fittavolo per cui lavorava, il quale gli pagava un quota per ogni animale catturato, che però restava di proprietà del suo cacciatore.
Per far si che nessuno facesse il furbo, e quindi per evitare che il tupè portasse al fittavolo ogni giorno le stesse talpe, veniva tagliato uno zampino ad ogni animale catturato e pagato.
Dunque, il tupè guadagnava in primo luogo perché liberava i campi da questi roditori, ma poi aveva anche una seconda fonte di reddito. Infatti la talpa veniva spellata, posta ad essiccare, e poi la pelliccia si vendeva ai pularö, che la mettevano in commercio per i capi di vestiario. Era importante che i tupè, nel momento in cui spellavano l'animale, facessero attenzione a non creare buchi nella pelliccia, perché altrimenti si sarebbe deprezzata.
Per l'essicazione si ricorreva a delle assi in legno su cui veniva inchiodato il pelo. Il guadagno che una talpa poteva fruttare andava dai 25 ai 50 centesimi delle vecchie lire, a seconda anche degli anni cui si fa riferimento. Poteva poi capitare di catturare non le talpe ma le puzzole, e in questo caso il prezzo aumentava.
Non erano molti i tupè che scendevano dai monti, ma il loro lavoro era certamente interessante. Alla fine della stagione tornavano a casa con un bel guadagno, tale almeno da giustificare la loro permanenza in pianura per alcuni mesi.
Ognuno di loro aveva dei fittavoli per cui lavorare, e quando si trattava poi di vendere le pelli ai pularö santangiolini, potevano nascere delle aste in cui il miglior offerente si aggiudicava il risultato della scaltrezza dei montanari.
Lorenzo Rinaldi (ricordi di Luigi Ferrari e Domenico Vitaloni)
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