Viaggio tra gli immigrati della porta accanto

Sant’Angelo: la città dai mille volti


Don Pierluigi Leva racconta una realtà in costante evoluzione


La questione è delicata e complessa. Comunque la si affronti si rischia lo scontro con sensibilità diverse, e innumerevoli sono gli aspetti da considerare.
A livello nazionale a volte sembra proprio che “non sappiano che pesci pigliare” e anche Sant’Angelo sta progressivamente “cambiando pelle”.
Se ne accorge chi lavora, chi va a scuola ma anche chi, semplicemente, cammina per la strada.
Non si tratta solo di contare gli stranieri presenti tra noi, perché di questo stiamo parlando, ma di cercare di intravedere, senza voler rubare il mestiere alle chiromanti, usando un po’ di lungimiranza, cosa sarà di noi.
Le domande sono tante e alcune abbiamo provato a rivolgerle a don Pierluigi Leva, che da sei anni svolge il suo ministero in una delle due parrocchie santangioline: Maria Madre della Chiesa.
Ogni giorno a contatto con la gente, sente, vede, ascolta. È fra i pochi ad essere nella posizione ottimale per valutare i mutamenti di almeno una parte della città (San Rocco) e tracciare un quadro il più possibile fedele della realtà.
Da sei anni in qua, da quando lei è a Sant’Angelo, in che modo le sembra cambiato il volto del paese?

“Sei anni sono ancora troppo pochi per poter in-quadrare la situazione e cogliere i dati veri della trasformazione. Le presenze più significative, all’epoca del mio arrivo qui, erano l’albanese e la rumena, Rom in particolare. Nel 2000 si trattava di 300 persone circa, mentre oggi, fonti ufficiali attestano 1500 regolari e, sembrerebbe, un migliaio di clandestini. A questi devono aggiungersi gli arrivi di moltissimi dal nord Africa, e di molti dall’Africa Nera. Una fetta significativa coinvolge poi i Latino Americani e una piccola minoranza di gente dall’estremo oriente del mondo. Una presenza non più irrilevante di stranieri, cambia radicalmente il volto del paese”.
So che le sta molto a cuore il contatto diretto con le famiglie e le persone. Per questo, aiutato da don Giulio Mosca, entra ogni anno nelle case per la benedizione. Come viene accolto da chi non condivide la stessa fede, e da chi ha una passato storico, culturale, sociale diverso dal nostro?
“Il rapporto con le famiglie chiama in causa la volontà esplicita di integrazione. Sarebbe ingiusto trattare tutti alla stessa maniera, penso ai Rumeni che non vogliono assolutamente che li si confonda con i Rom. Così come gli Africani di religione islamica sono ben diversi da quelli di area cattolica o comunque cristiana. Quando don Giulio ed io passiamo in rassegna le vie per la visita e la benedizione bussiamo ad ogni porta. I musulmani non vogliono la benedizione, ma esiste un rapporto di conoscenza, il saluto è gradito. Cosa dire poi dell’accoglienza calorosa che ci riservano i fratelli dell’America Latina? Le loro pareti sono tappezzate di immagini della Madonna di Guadalupe, alla quale riservano un vero e proprio altarino. Lì, desiderano che si preghi insieme. Indù e buddisti vedono il prete come uomo di Dio e gli portano grande rispetto. In malo modo non siamo stati rifiutati da nessuno”.


Don Pierluigi Leva (foto di Paolo Ribolini)

Fra le etnie presenti sul territorio barasino, a suo parere, quale è piùfavorita nel processo di integrazione e quale più a rischio emarginazione? Per quali motivi?
“La questione è legata essenzialmente alla persona, a come cerca di impostare la sua presenza e il suo avvenire. Il mondo araboislamico, a mio modo di vedere, è abbastanza diffidente e sospettoso, soprattutto nei confronti di chi appartiene ad una diversa religione.Mondi diversi non possono integrarsi se in un Paese come l’Italia la legge e l’amministrazione della giustizia fanno acqua da tutte le parti e non tutelano il debole e l’anziano.
Uno degli ostacoli all’integrazione è lo sbilanciamento immotivato verso gli stranieri ad opera di un numero ridotto ma qualificato di persone”.
Come dire, c’è chi dà troppo e troppo facilmente.
“I Rom sono fra i più problematici perché il lavoro non è una dimensione importante della loro vita. È circa un decennio, infatti, che vengono mantenuti dalla collettività. Quando anch’io, sbagliando, i primi tempi pagavo luce e metano, usavo i fondi della carità, offerte di chi si alza tutte le mattine e lavora fino al tramonto”.
Oggi come oggi, qual’è la situazione nei “suoi” quartieri?
“Al quartiere Pilota ci sono anziani che, pur abitando lì da quarant’anni, non avendo nessun desiderio di lasciare la loro casa e le relazioni costruite nel tempo, stanno seriamente pensando di andarsene. La vita in condominio – fonte già di per sé di possibili tensioni – diventa impossibile.


Anno 2006: stranieri in coda all’ufficio postale per regolarizzare i documenti

Come sopportare venti o trenta persone perennemente presenti in un appartamento al piano superiore? Come dividere equamente fra tutti i condomini i costi di bollette, quali l’acqua, che proprio per questo motivo diventano spropositati?
Possibile che non si sia ancora riusciti a mettere un freno a quanti gettano in strada selvaggiamente ogni sorta di immondizia? (divani, frigoriferi, mobili).
Quelle elencate sono solo alcune delle “abitudini” che rendono l’inevitabile gomito a gomito poco sopportabile e spingono molti a porsi domande di senso, a chiedersi perché il “sistema Italia” stia, in sostanza, facendo acqua proprio dove dovrebbe dimostrare la sua nobiltà, esasperando così i suoi cittadini”.
Qual’è, a suo parere – proviamo a proseguire – il sentimento che prevale in chi vede il proprio territorio colorarsi di volti diversi?
“La diversità ha sempre fatto paura, e questo dato lo si rileva nelle persone anziane che vanno comprese e non biasimate, come dovessero sentirsi in difetto qualora non si adeguino ai tempi.
Sono convinto che la stragrande maggioranza dei santangiolini abbia un cuore d’oro. Il fermento che esiste attorno alle innumerevoli associazioni di volontariato è il sintomo della capacità di una grande solidarietà.
Per me, ora, soprattutto a causa di alcuni stranieri, la gente si è sentita presa in giro e in seguito a questo ha preso piede una forma di intolleranza e di durezza.
È giusto, per esempio, che la collettività si addossi le spese di decine di buoni pasto per bimbi che hanno tra le mani ricchi cellulari, i cui genitori non lavorano e guidano macchine di una certa signorilità?
Pesano sulle famiglie italiane che hanno il mutuo, uno stipendio non da nababbi e la certezza di non essere aiutati da nessuno nell’affrontare le difficoltà e il caro vita. L’integrazione avverrà se il paese sarà unito, se cercheremo insieme la giustizia e il bene di tutti, ma giustizia prima di tutto!”.
A suo parere, per concludere, quali scenari si aprono pensando al domani?
“Meno assistenzialismo e più ascolto. Il futuro non sarà facile. Passeranno almeno tre generazioni prima di poter vedere i risultati di un lavoro avviato e impostato positivamente ai nostri giorni.
Non dobbiamo aver paura di essere italiani e cristiani, per chi lo è, o comunque appartenenti ad una cultura in virtù della quale, per dirla con Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani”.
Queste le risposte di un sacerdote che più che rispondere agli interrogativi da me posti ne ha aperti degli altri, non di poco conto. In tutto questo, dov’è l’Italia?
Ricorda ancora don Leva: “Qualche anno fa’ il cardinal Biffi proponeva un’accoglienza agli immigrati pensata e regolata, privilegiando coloro che non solo condividono la nostra fede, ma anche quei valori che la nostra cultura e la nostra società hanno prodotto. E’ stato bersagliato da tutti!”.
Non quando ciascuno rimane arroccato a difesa delle proprie posizioni.
Molti, ormai, concordano nel dire che un ruolo fondamentale lo giocherà la scuola, e anche su questo tema si dovrà aprire un capitolo a parte.
Non si tratta di dividere i torti e le ragioni, ma di dar voce a coloro che cominciano a credere, pur tenendosi ben distanti da dannose e inutili posizioni razziste, che il permissivismo sfrenato non sia vincente, ma controproducente.
La paura, ingiustificata se le prime a fondare su di essa le proprie “strategie” sono le istituzioni, rema contro un reale processo di integrazione, in cui la diversità gioca un ruolo di scambio e apprendimento importante, in cui ciò che gli uni danno agli altri arricchisce ma nel rispetto delle diverse culture e tradizioni.
E perché tutto questo sia possibile non c’è forse bisogno di percorsi educativi che responsabilizzino chi chiede di essere accolto, per una società in cui ciascuno si senta libero perché tutti stiamo rispettando la stessa legge?
Alla prossima.
Fulvia Cresta