Giornata della memoria: l’esperienza di un santangiolino deportato

L’inferno in terra a Mathausen,
il coraggio di Antonio Piacentini


Dopo l’8 settembre ’43 non si piegò al nazifascismo e venne catturato

Lo scorso 27 gennaio il mondo intero ha celebrato la Giornata della Memoria, istituita per ricordare tutti i deportati nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale. La data in cui celebrare la Giornata della Memoria è stata scelta perché, nel 1945, esattamente il 27 gennaio, l’armata rossa scopriva per la prima volta la tragedia umana di Auschwitz, il campo di sterminio nazista più conosciuto. Pare che questa località fosse stata individuata appositamente dai gerarchi del Reich perché situata in corrispondenza di alcune linee ferroviarie, ma in una zona comunque poco abitata.
Per questo era facile far arrivare i convogli piombati di prigionieri, ed era altrettanto facile occultare ciò che veniva fatto loro. Nei campi di concentramento che sorsero in Germania e nelle zone occupate da Hitler, furono rinchiusi anche tanti giovani militari italiani, fatti prigionieri dai nazisti in diverse zone di guerra l’indomani dell’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio. La loro unica colpa era di far parte dell’esercito italiano. Ai giovani soldati veniva posta dinanzi una scelta: aderire all’ideologia nazifascista della Repubblica di Salò, con la garanzia di un rientro immediato in Italia, oppure rimanere ancorati ai principi della democrazia, con la prospettiva della prigionia nei lager tedeschi. Pochi aderirono alla Repubblica di Salò, circa 80mila morirono nei lager. Altrettanti morirono nei primi anni dopo la liberazione per le privazioni e le malattie a cui erano stati sottoposti. Moltissimi giovani italiani sono riusciti a sopravvivere ai campi di prigionia e sono tornati a casa per rifarsi una vita. Tutti comunque, nel periodo trascorso nei lager, hanno lavorato per le industrie e lo stato tedesco, strappati agli affetti, non pagati, trattati senza il minimo rispetto della persona umana. Tra questi giovani anche dei santangiolini, come Antonio Piacentini, che nei primi quaranta giorni di prigionia visse a Mathausen, uno dei campi più duri, nei quali avveniva lo sterminio sistematico degli ebrei.


Una fotografia sgualcita dal tempo
di Antonio Piacentini in divisa militare

 

Antonio Piacentini è nato a Sant’Angelo il 27 settembre 1921 ed è morto nella sua città il 19 agosto 2002, all’età di 81 anni. Figlio di Pietro e Luigia Ferrari, la sua famiglia viveva in via Santa Maria, oggi via Madre Cabrini.
Nel 1940, a seguito della dichiarazione di guerra dell’Italia fascista alla Francia e alla Gran Bretagna, Piacentini - che in quel momento era a Treviso per il servizio di leva - fu inviato al fronte, in Albania, dove rimase fino al settembre 1943. Un periodo di guerra, interrotto solo da alcune brevi licenze, che il santangiolino sfruttava per tornare a casa.
Proprio al rientro dall’ultima licenza, mentre Piacentini faceva ritorno in Albania, il treno sul quale viaggiava fu bloccato dai soldati nazisti in una stazione nei pressi di Zagabria. I militari italiani vennero informati dell’armistizio siglato l’8 settembre con il comandante in capo delle forze anglo-americane, grazie al quale l’Italia si ritirava dalla guerra.


Alcuni documenti apparteuti ad Antonio Piacentini che il figlio Ignazio conserva gelosamente.
Il ricordo del padre e della Sua esperienza tra il '43 e il '45 è ancora molto vivo nei figli.
Una testimonianza dolorosa di un passato da non dimenticare


Nel comunicato diramato via radio da Badoglio si diceva: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane”.
Da quel momento gli ex alleati, cioè i tedeschi, diventarono i più feroci nemici. I militari nazisti che fermarono il convoglio su cui viaggiava Piacentini, puntarono le armi contro i soldati italiani che facevano ritorno in Albania, e dirottarono il treno a Mathausen. Disarmarono Piacentini e i suoi commilitoni e li misero di fronte ad una scelta: diventare repubblichini di Salò o difendere la libertà. Piacentini, come molti altri, decise di non affiliarsi ai fascisti e dunque per lui si spalancarono le porte del lager.
Trascorse i primi quaranta giorni di prigionia nell’inferno di Mathausen.
Dormiva in baracche di legno, lavorava dalle cinque del mattino come manovale negli scali ferroviari a scaricare i treni merci, nei boschi a tagliar legna, tra le case a spalar la neve.

Sempre sotto la minaccia delle pallottole naziste, sempre correndo il rischio di ammalarsi gravemente o morire di fame.
Come ebbe modo di raccontare ai familiari una volta rientrato in Italia, nelle settimane trascorse a Mathausen si rese conto della strategia utilizzata per lo sterminio degli ebrei. Nei campi di concentramento Piacentini incontrò anche zingari, soldati russi fatti prigionieri e molti altri militari italiani.
I soldati italiani non erano considerati “prigionieri di guerra”, “ma internati militari”. Una differenza non da poco, perché li escludeva dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri.
Dopo Mathausen, Piacentini venne trasportato in un secondo campo di concentramento, in Austria, nei pressi di Dachau. Gli ultimi ricordi della prigionia del santangiolino sono in una vecchia scuola nella zona di Vienna, città nella quale il giovane barasino veniva impiegato per spalare la neve.
Durante gli anni della prigionia, Piacentini ebbe modo di inviare qualche scritto a casa e di ricevere alcune lettere. Una, ad esempio, inviatagli da don Nicola De Martino il 13 novembre 1944.
Nella missiva, denominata dai tedeschi “corrispondenza dei prigionieri di guerra”, Piacentini veniva indicato come il prigioniero numero 142452, collocato presso il campo M. - Stammlager XVII A. Una lettera precedente, data 6 febbraio 1944 lo definisce “internato di guerra”, gli attribuisce lo stesso freddo numero e lo colloca allo Stammlager XVIII A.
      Un ritratto degli anni della maturità

Piacentini venne liberato qualche settimana prima del 25 aprile 1945, grazie all’impegno della Croce Rossa. Pare che periodicamente i tedeschi permettessero agli ispettori della Croce Rossa di indagare sulle condizioni dei prigionieri in alcuni campi. Al termine di queste visite piccoli gruppi di prigionieri venivano liberati. Sembra che Piacentini si sia salvato proprio per questa ragione. Arrivò fino a Bolzano con un salvacondotto e viaggiando su mezzi di fortuna. Poi, perlopiù a piedi, raggiunse Sant’Angelo.

La moglie, Elena Nava, racconta con un po’ di commozione: “Il suo arrivo fu annunciato da una telefonata in paese nella quale si diceva di un certo santangiolino, un Piacentini, che tornava a casa a piedi da Milano. A quel tempo non eravamo ancora sposati, io lavoravo come ricamatrice presso la custode della casa di Madre Cabrini. Di fronte abitava la famiglia di Antonio. Ad attenderlo una via piena di gente. Era tra i primi a tornare dalla Germania”.
Lorenzo Rinaldi