Nella Sant’Angelo del Cinquecento, ai tempi dell’Inquisizione
Frate e massaro al servizio dei conti Bolognini, protestante, seguace della dottrina calvinista, condannato al rogo sulla piazza di Lodi
Già nel Cinquecento la dottrina calvinista varcava i confini della Svizzera e faceva proseliti anche in Italia, paese tradizionalmente legato al cattolicesimo. E benché possa risultare una situazione piuttosto strana, ancor più bizzarra risulterà la scoperta di focolai calvinisti in Lombardia e, precisamente, nell’attuale provincia di Lodi, in un comune chiamato Sant’Angelo Lodigiano.
Ebbene sì, il calvinismo, nato e diffuso ad opera di Giovanni Calvino, nella prima metà del Cinquecento, già nei primi anni del mezzo secolo successivo trovava sostenitori anche nella nostra cittadina, talmente convinti da farli incorrere nelle ire della diocesi di Lodi, che, a sua volta, avvalendosi dell’aiuto del pretore, riusciva a condannarli alla pena di morte sul rogo. Proprio così si conclude la storia del gentiluomo Galeazzo Trezzi, di Sant’Angelo Lodigiano.
In realtà, la diffusione del calvinismo in Lombardia, è facilmente spiegabile con la sua vicinanza alla Svizzera e, dunque, a Ginevra che, facendo due conti, dista da Sant’Angelo Lodigiano circa quattrocento chilometri, una distanza non trascurabile, ma neppure impossibile (per la circolazione di idee e di uomini) persino sei secoli fa…
Il francese Giovanni Calvino, elabora un nuovo protestantesimo, sulla scia delle nuove idee diffuse da Martin Lutero. Quest’ultimo riserva un violento scossone alla Chiesa Cattolica con l’elaborazione di una protesta, da cui, appunto, il nome di Protestantesimo.
Dal canto suo, Calvino attraverso la sua Teoria della Predestinazione afferma che l’uomo, fin dalla nascita, è predestinato da Dio alla salvezza o alla dannazione. Il teologo sostiene che l’uomo, poiché non conosce il piano divino di predestinazione, è in ogni caso tenuto a comportarsi come se fosse predestinato al Paradiso e, perciò, ad agire in ogni circostanza in modo virtuoso. E poiché talento e capacità sono doni di Dio, ogni uomo deve utilizzarli nel modo migliore.
Una testimonianza evidente dell’attecchimento di tali idee anche nella nostra zona, è data da questo signor Galeazzo Trezzi, frate e massaro dei conti Bolognini, che pur di non venir meno alla propria fede religiosa, morì sul rogo nell’anno 1551.
Ne abbiamo una prima, anche se laconica notizia nell’opera di Cesare Cantù, intitolata “Il sacro macello della Valtellina, Episodio della riforma religiosa in Italia”, pubblicata da una casa editrice fiorentina nel 1853. In questo testo vi si legge solo di questo Galeazzo Trezzi, gentil omo lodigiano, convertito al protestantesimo dal Mainardi e dal Curione, condannato nel 1551 dalla Inquisizione al fuoco.
Ci aiuta a far luce su questo scarno riferimento Luigi Fumi, in una pubblicazione intitolata “L’inquisizione romana e lo stato di Milano” recuperata nel volume “Archivio Storico Lodigiano” Annata XXX-1911.
Il Trezzi non è soltanto un frate, dunque un uomo di chiesa, ma è pure il massaro, ossia il responsabile di una delle tante aziende rurali di proprietà dei conti Bolognini. È facile intuire, pertanto, quanto sia socialmente rilevante una tale figura, religiosa e professionale insieme e, di conseguenza, come la sua condotta morale sia bersaglio del rigido giudizio della comunità.
Denunciato per eresia
È il 14 novembre 1546: Galeazzo Trezzi viene denunciato di “eretica gravità e costituito in giudizio”, a causa di principi religiosi che l’uomo non teme di divulgare tra la popolazione. Sostiene che il Purgatorio, luogo e momento transitorio, nel quale l’anima dell’uomo si purifica dagli errori commessi nella via terrena, per poi ascendere al Paradiso, non esiste!
Con la stessa convinzione, il Trezzi afferma che le preghiere per i defunti non hanno valore, in quanto la condizione delle anime dei trapassati è comunque stabilita da Dio e da Dio soltanto. Afferma che il culto dei santi è privo di valore, perché non riconosce il potere da parte di uomini, anche se di Chiesa, di definire “Santi” altri uomini.
A questi princìpi, che per i cristiani sono inaccettabili, si aggiungono altre idee che riguardano la condotta dei fedeli e dei sacerdoti. Anche in tal caso le idee del massaro sono dirette e forti: egli, come suggerisce la dottrina calvinista, non riconosce la validità della confessione religiosa, in quanto il fedele può e deve gestire il proprio rapporto con Dio direttamente, senza la mediazione del sacerdote. È favorevole al matrimonio dei sacerdoti, che non vede come rigidi e severi mediatori tra l’uomo e Dio, ma come pastori, che hanno la missione di radunare e tenere unito il gregge di Dio. Ancora, nega la necessità di digiunare, in atto di penitenza. Infine, afferma di non riconoscere l’autorità del pontefice.
Naturalmente queste idee, che per i calvinisti sono semplici premesse sulle quali fondare una nuova Chiesa, per i cristiani sono sacrileghe, scandalose, eretiche. Ed ecco che il Trezzi deve fare i conti con la realtà religiosa, culturale e sociale in cui vive.
Viene condotto presso il tribunale della Santa Inquisizione che, in un primo tempo gli attribuisce una condanna abbastanza lieve. Poiché, infatti, il Trezzi sembra mostrare segni di pentimento tanto da risolversi ad abiurare il calvinismo davanti a tutta la popolazione di Sant’Angelo Lodigiano, i giudici stabiliscono che egli, per alcuni anni, stia a quelli che oggi definiremmo arresti domiciliari: sempre in casa, come se fosse in carcere!
In seguito, la pena viene alleggerita: da alcuni anni viene ridotta a un periodo di sei mesi! E, tuttavia, ad una condizione: che, cioè, nei giorni festivi, il Trezzi si metta davanti all’altare maggiore della chiesa di Sant’Angelo per leggere davanti ai fedeli i sette salmi penitenziali e la formula religiosa con la quale tempo prima ha abiurato il calvinismo.
La vicenda potrebbe concludersi qui, se a complicare le cose non si mettesse l’audacia del Trezzi e, verosimilmente, il suo desiderio non certo sincero di ritornare al cristianesimo.
Qualche tempo dopo, esattamente nel 1551, viene nuovamente arrestato perché ritenuto recidivo rispetto a quelle pericolose idee che tempo prima ha cercato di diffondere e perché non ha mantenuto gli accordi, sottraendosi a quegli impegni che aveva promesso di mantenere per dimostrare l’autenticità del suo pentimento…
Dopo questo secondo arresto, il Trezzi che, in ultima battuta, ammette di essere ancora convinto di tutte quelle idee che aveva coltivato prima dell’abiura, viene dichiarato eretico recidivo e condannato dalla Chiesa ad essere rilasciato alla volontà del podestà di Lodi. Quest’ultimo, tuttavia, evidentemente rispettoso della spiritualità di ognuno, non vede nella condotta del Trezzi una colpevolezza tanto grave da fargli meritare la pena di morte e pertanto chiede la grazia per la vita del condannato. Ed in effetti ancora una volta il destino sembra volgere a suo favore.
Processi e condanna
Questi, davanti alle autorità ecclesiastiche e al pretore, accomodati su due alte cattedre erette davanti alle porte della chiesa maggiore di Lodi, affronta il processo, che, in verità si conclude, ancora una volta, senza una sentenza di morte: Galeazzo Trezzi viene dichiarato “eretico luterano recidivo” e pertanto affidato al pretore di Lodi che provvederà alla sua definitiva incarcerazione. Si stabilisce altresì che tutti i beni del colpevole vengano confiscati in favore del Fisco della Santa Inquisizione.
E tuttavia, ormai i lettori l’avranno intuito, l’antico nostro concittadino non è uomo di mezze misure. Poiché ormai le sue idee lo hanno portato alla prigione, alla povertà, al pubblico ludibrio, tanto vale esprimere senza più timori e con piena dignità le proprie convinzioni.
E così ecco che Galeazzo, al termine del processo chiede al pretore di Lodi di essere ascoltato, affinché possa, una volta per tutte e in modo chiaro e diretto, esprimere le proprie opinioni. Gliene viene data facoltà e sia i lodigiani sia i santangiolini presenti al processo odono ancora una volta quelle idee per le quali anni prima l’uomo aveva scandalizzato la morale comune.
Il coraggio e l’audacia del condannato fanno esplodere la tensione che serpeggia nella folla: scoppiano tumulti e il pretore si vede costretto a portare via il Trezzi. Si dice che lungo il percorso che porta il Trezzi in carcere, il triste corteo si imbatta nel Governatore. Quest’ultimo, informatosi dal pretore, vuole a sua volta interrogare il condannato: e questi non manca di affermare ancora una volta le proprie idee, manifestandole con convinzione e fermezza. Questo coraggio sfacciato è mal assorbito anche dal braccio secolare della legge, che ritiene di dover rivalutare la pena da attribuire all’eretico.
Dopo qualche settimana di carcere, durante il quale il Trezzi non dimostra alcun segno di pentimento, ma, anzi, desta scandalo nel tentativo di convertire al calvinismo alcuni custodi della prigione, il pretore di Lodi invia gli atti del processo niente meno che al cattolicissimo imperatore Carlo V, chiedendo se l’uomo debba essere mandato a morte o meno, come monito per l’Italia settentrionale, così vicina alla Svizzera calvinista…
La risposta non tarda ad arrivare ed è severa: Galeazzo Trezzi merita la morte sul rogo, come si addice ad un eretico.
Viene arso di lì a poco nella pubblica piazza di Lodi.
E il tanto civile mondo cattolico chiude la vicenda di Galeazzo Trezzi non tanto con una riflessione sull’opportunità di una tale condanna, ma sulla risoluzione su chi deve assumersi le spese del rogo. A risolvere la questione sarà il podestà di Lodi che, anche se consapevole che tale onere deve spettare al Fisco della Santa Inquisizione che ha incamerato i beni del condannato, per non turbare la sensibilità degli animi, si assume tale incarico e farà fronte ad una spesa di ben undici lire!
Sembrano, quelli appena narrati, fatti lontani, remoti quasi inverosimili: si parla di calvinismo a Sant’Angelo Lodigiano, di processi davanti a chiese maggiori, addirittura di Santa Inquisizione e, persino, di roghi nella pubblica piazza di Lodi. Molti aggrotteranno la fronte e saranno presi da sbigottimento...
E invece, chi ha avuto modo di leggere più volte le pagine scritte dal conte/ricercatore storico Luigi Fumi su tali accadimenti, non può fare a meno di arrivare alla conclusione che la sorpresa è fuori luogo.
Decenni di condanne a morte, di roghi, di sofferenze fisiche e, ancor prima spirituali, di severe limitazioni delle proprie idee, persino della propria spiritualità, Notti di San Bartolomeo, arrossate dal sangue di Cattolici e Ugonotti, e tanto altro ancora, non hanno comunque impedito all’uomo di ritornare sui propri rovinosi passi e di combattersi ancora e sempre in nome di religioni diverse nel tentativo di portare alti principi tra i quali, ahimè non sono mai annoverati quelli del Rispetto dell’Altro e di quello che, personalmente, mi piace definire Amorevole Tolleranza del Prossimo.
Veronica Paolini
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