Le ricerche effettuate sul tema della storia e delle condizioni ecologiche del fiume Lambro, mi hanno lasciato, come sempre succede in questi casi, parecchie curiosità ancora da soddisfare. Una di queste è relativa alla vita che si conduceva sulle rive del fiume nei secoli passati. Così ho cominciato a chiedermi quali potessero essere le condizioni di vita e di lavoro dei pescatori.
Il punto di partenza non poteva essere altro che lo studio già condotto sui pescatori della Costa. Le abitudini e le modalità di lavoro di questa comunità sono stati studiati in un celebre saggio di Fiam-metta Zanaboni intitolato “La Costa di Sant’Angelo Lodigiano: dinamiche culturali in una situazione di marginalità”, pubblicato nell’Archivio storico Lodigiano nel 1979.
In quelle pagine si descriveva la realtà di una popolazione in miseria che faceva della pesca una delle poche risorse di sostentamento a cui affidarsi per sopravvivere grazie al Lambro e ai numerosi corsi d’acqua del territorio.
Qui la divisione sostanziale era tra pescatori professionali, che detenevano cioè i diritti di pesca, pescatori di frodo che spinti dalla necessità di sopravvivenza si arrangiavano in qualche modo e pescatori migranti che si recavano in altre parti d’Italia per svolgere il loro lavoro.
Lo studio della Zanaboni, ha un taglio antropologico. La studiosa è partita dalle testimonianze di pescatori ancora viventi per ricostruire un quadro di vita. Questo abbozzo di ricerca parte invece da strumenti storici nel tentativo di individuare fonti documentarie.
I pescatori ebbero il loro momento più felice tra il ‘700 e l’800 anche se si presume che un nucleo fosse presente in paese almeno dal 1200.
Gli ultimi pescatori professionali scomparvero da Sant’Angelo nel volgere di cinquant’anni.
Nel 1898-99, nel quartiere Costa erano censiti 71 pescatori; nel censimento del 1949 non risultava più alcun addetto alla pesca.
I diritti di pesca
Per capire meglio perché vi erano pescatori autorizzati ed altri abusivi, occorre però ripercorrere un po’ di storia dell’organizzazione del territorio.
È necessario tornare indietro nel tempo fino all’Alto medioevo, epoca in cui si è formato l’impianto di una società sopravvissuta nei secoli. Nell’Alto Medioevo, IX e X secolo, spiega un illustre studioso quale Le Goff, nel suo volume “La civiltà dell’Occidente medioevale” vi era ancora maggior spazio di libertà in Europa. Quindi «il fiume, la palude, la foresta, lo sterpeto, offrivano a chi voleva e poteva prenderle ampie riserve. Pesce, selvaggina, miele e tanti altri cibi occasionali» .
Da lì in poi un sistema feudale sempre più pressante ha regolato anche i diritti di pesca, ceduti dagli imperatori a figure sottoposte che controllavano il territorio. I diritti i pesca erano ritenuti regalie minori e quindi suscettibili di trasferimento fino ad un pescatore privato.
È quello che è successo anche a Sant’Angelo Lodigiano.
I diritti di esercizio delle acque, compresa la pesca, passarono di mano in mano, grazie alle solite concessioni imperiali, prima ai vescovi di Lodi alternando tale diritto con la città di Milano.
Ritornarono in modo definitivo ai Lodigiani, grazie a Federico II tra il 1210 e il 1220. I diritti sul Lambro arrivarono ai Visconti nel 1277.
I Bolognini esercitarono poi tali diritti almeno dal 1582, mantenendo i confini tra la Grangia Cistercense di Valera Fratta e la proprietà dei frati della Certosa di Pavia collocata a Graffignana.
Un altro confinante delle proprietà dei Bolognini si trovava a Villanterio.
Lì vigevano antichi diritti di pesca sul Lambro meridionale assegnati per editto alla casa Ricci dal 1692 e poi passati alla famiglia Carena e nell’800 all’ing. Lino Meriggi. (Pavesi)
In questo territorio lavoravano i pescatori professionali che ottenevano dai nobili regolari contratti di tre, sei o nove anni.
È chiaro quindi che la pesca era riservata solo a chi deteneva i diritti, per gli altri non restava che la strada dell’illegalità o quella del trasferimento in un altro territorio (Notizie dall’Archivio Bolognini),
I mercati del pesce
Il tutto fluì inalterato almeno fino alla metà del 1700 quando iniziò l’organizzazione del Catasto teresiano, cioè il nuovo sistema fiscale voluto dalla sovrana Maria Teresa d’Austria e la conseguente riorganizzazione delle terre con il fine di ammodernare la produzione. Siamo nel periodo dei sovrani illuminati che cercavano la strada del progresso. Qui le concessioni di pesca dei Bolognini si fermarono e restano da chiarire i passaggi successivi, almeno fino all’Unità d’Italia.
Il pesce, anche se a disposizione nel fiume, non era quindi sulle tavole abituali dei nostri antichi paesani proprio perché privilegio di pochi detentori di diritti. Esistevano due importanti mercati del pesce a cui facevano probabilmente riferimento i barasini: il mercato di Milano e quello di Pavia.
Sul fatto che i nostri pescatori si recassero a Milano per vendere abbiamo testimonianze dirette degli ultimi pescatori dei primi del ‘900.
Fin dal 1700 abbiamo documenti della città di Milano dove si elencavano «le banche di pesce fresco», accostate ai pollaioli quali mercanti permanenti e regolarmente tassati.
L’altro importante mercato del pesce si trovava a Pavia ed è stato descritto dall’ittiologo Pietro Pavesi in un articolo apparso nel bollettino storico pavese del 1893. Esso funzionava in modo estremamente complesso. Fin dall’inizio dell’età moderna in questa cittadina si era costituito un Paratico (una corporazione) di pescatori del Ticino che seguivano complesse regole organizzative. Gli studiosi hanno individuato documentazione sul lavoro di questa organizzazione pescatoria almeno dal 1571 al 1778.
Essa fu però presente a Pavia fin dal 1248 da quando cioè l’Imperatore Federico concesse i diritti di pesca. Il Paratico era guidato da un priore, con consoli camerari e due o tre sottoconsoli.
L’organizzazione però non aveva diritti esclusivi di pesca nel Ticino e acque limitrofe, perché tutti i diritti erano divisi con monasteri che vantavano antiche giurisdizioni e priorità d’uso. Da qui le frequenti cause, che venivano discusse in tribunale producendo le tante testimonianze documentarie che hanno permesso di ricostruire questa storia.
Il consumo di pesce e di conseguenza il prezzo au-mentavano nei periodi quaresimali, tanto che il comune dovette intervenire imponendo un calmiere dei prezzi quaresimali.
La professione del pescatore comunque, anche in una ricca risorsa quale era il Ticino restava faticosa e povera. Più volte il Paratico dei pescatori venne richiamato perché non riusciva a sostenere le tasse per la vita sociale e religiosa. Vi erano tasse per comprare ceri, per i doni da presentare nelle cerimonie pubbliche, per le processioni e così via.
Tra gli obblighi del Paratico vi era anche quello di partecipare alle processioni con lo stendardo della corporazione.
Nel 1583 il Paratico di Pavia venne richiamato dalle autorità perché lo stendardo raffigurante san Siro e un santo protettore (forse san Teodoro) era lacero e indecente. Segni questi di una situazione di difficoltà economica.
Occorrerebbero indagini storiche approfondite per comprendere quali fossero i rapporti dei barasini con questi ed eventualmente altri mercati, quale fosse il ruolo nella vendita del pesce del mercato di Sant’Angelo Lodigiano e quali quantità ve-nissero regolarmente cedute al commercio e con quali ricavi.
Ma chi mangiava il pesce?
Fin dal Medioevo sulla tavola dei contadini il cibo indispensabile era sempre il pane, realizzato con i più vari elementi. Le Goff nell’ordine cita ad es. le leguminose (piselli, vecce, fave) ma il pane si faceva anche con le ghiande nei momenti di crisi, e poi la carne se si riusciva ad ottenerla. Il pesce appariva come una provvista occasionale e veniva piuttosto donato che mangiato.
Lo stesso volume di Le Goff già citato riporta questo esempio: «un villaggio anglosassone doveva consegnare per il consumo regio dieci montoni, dodici oche, venti formaggi, dieci misure di miele, cinque salmoni e cento anguille».
Indicazione abbastanza chiara che il pesce aveva come destinazione finale le tavole dei signori.
Il pesce insomma appare più frequentemente ad uso della gran nobiltà e della parte ricca della popolazione che poteva portare sulla tavola questo cibo particolare.
In alcuni esempi reperiti negli Archivi di Stato, per le ragazze del conservatorio di Comacchio, il pesce appare nei menù del venerdì a pranzo e nei giorni di vigilia (non si precisa il tipo di pesce).
A Pavia fino al 1791 i Vescovi avevano diritto, da parte del Paratico, alle regalia delle viscere di storione con cui si faceva il caviale.
Sarebbe interessante verificare, nell’archivio del castello, l’esistenza di menù dei nostri castellani per valutare l’importanza del pesce sulla tavola dei conti Bolognini.
Per i contadini italiani in generale al massimo si parlava di pesce secco che accompagnava il pane. Sulle tavole dei nostri nonni appariva qualche rana pescata come completamento del desco quotidiano. Il resto veniva tutto scambiato per acquistare farina e latte, alimenti primari della dieta contadina.
Questo quadro sociale e storico, unito al fatto che i pescatori barasini erano una minoranza in un paese a prevalenza commerciale, dà una spiegazione in più, forse, al fatto che i santangiolini abbiano potuto perdere il loro fiume a partire dagli anni ’60 nel modo che più volte ho raccontato.
Cristoforo Vecchietti