Mai copertina sarebbe più idonea a rappresentare l’attuale imbarazzo di un paese al suo compleanno (centocinquant’anni al 17 marzo). È un uomo in mutande, nella vignetta di Carlo Lazzaretti, per un testo che nella sua frammentarietà ha il pregio e il difetto di farci vedere lo “stato” così com’è, chiedendosi se riusciranno mai gli italiani a salvare l’Italia. Una pungente ironia, chiamiamola pure satira, veste allora i panni dell’amara (e tragicomica) riflessione di Sergio Pizzuti, sulla nostra quasi ignuda “nazione”.
Smessi quindi i panni di segretario generale della provincia di Sondrio, l’autore (di casa a Sant’Angelo Lodigiano) si fa coinvolgere un’altra volta dal gusto per la citazione, e assieme a Marco Raja, (col quale aveva dato alle stampe qualche anno fa “La Casta ci incastra”) ritorna egregiamente alle argute osservazioni su quel mondo del quale ogni pubblico amministratore potrebbe (ma più che altro, dovrebbe) percepirne i rugginosi ingranaggi, le lentezze burocratiche, il silenzio - assenso e un’abitudine mentale troppe volte impantanata nella delega delle responsabilità allo stato, senza capire che lo stato siamo noi.
Il testo ci spinge così a riflettere sorridendo, quanto mai amaramente dal momento in cui comprendiamo, nel pamphlet che lo compone tra punti di vista dell’autore, frammenti dell’amico e altre vedute (poetiche ed epigrafiche) che la domanda sottotitolata (“riusciranno gli italiani a salvare l’Italia?”) suona viepiù retorica e che, come in Massimo D’Azeglio: “gli italiani hanno voluto far una Italia nuova, e loro rimanere gli italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina, pensano a riformare l’Italia e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”.
Di questi toni, l’abilità di Pizzuti è quella di commentare un dialogo invisibile da un rimando all’altro, per temi che caratterizzano la contemporaneità tra vizi e virtù, in ciò che non è ancora così passato da sembrare storia, ma nemmeno così presente da sembrare attuale.
Scorrono così con piglio ironico le politiche ambientali o quelle migratorie, quelle del lavoro e di diritto e Costituzione (che fa rima con “indisposizione”), fino ai personaggi che han fatto il tricolore e quelli che di colori ne vorrebbero tre, divisi. C’è anche il sogno di una Italia felice e la consapevolezza che, pure all’Inno di Mameli, composto dal poeta Goffredo Mameli nel 1847, già qualcuno rispose, nel 1850: “Che dite? L’Italia non anco s’è desta./Convulsa sonnambula/scrollava la testa”. Ce n’è quanto basta, per farci dire davvero: “auguri, Italia”!
(Sergio Pizzuti, Con la partecipazione di Marco Raja, L’Italia in mutande - ma in piedi - Riusciranno gli italiani a salvare l’Italia?, Montedit 2010).
Matteo Fratti.