Per celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia (1861-2011), “Il Ponte” offre ai suoi lettori un interessante testo inedito di ANGELO MONTENEGRO, scritto che fa parte di un più ampio studio che il sempre compianto storico santangiolino stava compilando per poi essere pubblicato in un volume dal titolo «Sant’Angelo Lodigiano. Storia politico-amministrativa di un comune “bianco” della bassa Lombardia, 1860-1945». Purtroppo la morte dell’autore ha interrotto il lavoro e, fra i testi che tanto gentilmente la moglie Bibiana ci ha consegnato, mancano alcuni capitoli che rendono laboriosa la pubblicazione in un volume, che certamente sarebbe stato un ulteriore contributo alla riscoperta della storia di Sant’Angelo Lodigiano. Il testo che presentiamo viene suddiviso su due numeri de “Il Ponte” e, per renderlo più conforme alla finalità di un giornale, sono state tolte le note che lo corredano.
All’indomani dell’annessione della Lombardia al Piemonte, nel 1859, lo scontro tra la parte clericale e quella garibaldina si fece subito aperto. Il consiglio comunale e i tre deputati avvocato Antonio Bassi, conte Marco Bolognini e ingegnere Anacleto Nosotti, che reggevano provvisoriamente il governo del paese, nella seduta consiliare del 21 ottobre 1859 votavano un’offerta di 500 franchi “per l’acquisto del milione di fucili per l’armata italiana” con 13 voti favorevoli e 5 contrari.
Intanto nel nuovo clima di entusiasmo anche i liberali del paese uscirono allo scoperto organizzando una sottoscrizione per l’acquisto dei fucili per Garibaldi. Fra questi furono particolarmente attivi i tre preti liberali, primo fra tutti don Bartolo Cagnoni, suscitando le ire del parroco don Bassano Dedè che ottenne dal vescovo la loro sospensione dalla confessione e dalla predicazione.
Don Bassano Dedè, prevosto di Sant'Angelo dal 1857 al 1892 |
Fotografia scattata a G.Garibaldi nel 1862 a Sant'Angelo |
Questo episodio attirò sul prevosto gli attacchi della stampa liberale e democratica lodigiana che esercitò pressioni anche sul vescovo affinché tornasse sulla sua decisione. Nel numero di febbraio del 1860 il “Corriere dell’Adda” dava poi notizia che i tre preti “furono reintegrati nelle loro attibuzioni, pienamente da monsignor vescovo il quale li autorizza a predicare e confessare per tutta la diocesi (...) meno in borgo di Sant’Angelo, se non lo concede il prevosto, essendo egli padrone in casa sua. Il vescovo (…) se per un momento potè dar retta alle insinuazioni dei malevoli riconobbe la verità e fece giustizia, ma non fa altrettanto il reverendo prevosto il quale persiste nel divieto. È livore o punizione?”.
Ma anche da parte liberale in paese non si andava molto per il sottile e numerose dovettero essere le denunzie giunte alle autorità civili contro le predicazioni “antiunitarie” o “antitaliane”, come si usava dire allora, tenute da don Savarè e don Dedè nell’officiare la Messa, tanto che nell’estate del 1860 don Savarè veniva condannato a 6 mesi di carcere e a 300 franchi di multa, per aver com-messo “il crimine di perturbazione della pubblica tranquillità arringando dal pergamo con parole tendenti ad attaccare ed ingenerare disprezzo al nesso politico del nostro Stato, alludendo chiaramente all’annessione delle Romagne”. Pare che l’arresto fosse stato richiesto e fatto eseguire dallo stesso sindaco Pandini per mezzo della Guardia Nazionale. Episodi come questo si ripeteranno ancora nei mesi e negli anni successivi.
Nel giugno dello stesso anno la stampa liberale tornerà ad attaccare don Dedè a causa del rifiuto di questi di officiare una cerimonia religiosa in occasione del 2 giugno, festa dello Statuto, respingendo l’invito fatto in tal senso dalle autorità comunali, contrariamente a quanto era invece avvenuto ad esempio a Codogno e in altre località del Lodigiano. Un altro rifiuto verrà opposto all’invito a celebrare una messa in memoria di Cavour morto nello stesso mese, anche se una messa verrà celebrata nella chiesetta privata unita alla villa del marchese Fossati, oggi Villa Cortese, probabilmente da uno dei preti liberali, alla quale parteciparono le autorità cittadine.
Nella primavera del 1862 il passaggio di Garibaldi a Sant’Angelo rappresentò uno dei maggiori momenti di esultanza dei liberali barasini ma fu anche l’occasione per don Dedè per esprimere ancora il suo disprezzo per gli ideali liberali e unitari tanto che, a quanto si dice, vietò a Garibaldi l’ingresso in chiesa.
Il prete liberale Cagnoni, che quel giorno si trovava fuori Sant’Angelo, inviava alla “Gazzetta di Milano” una lettera, pubblicata il 16 aprile, in cui salutava entusiasticamente lo storico evento, usando espressioni di esaltazione nei confronti di Garibaldi e delle sue gesta. A seguito di questa pubblicazione Cagnoni fu sospeso a divinis dal vescovo Benaglio.
Continuavano intanto le prediche antigaribaldine del prevosto suscitando reazioni risentite nel fronte opposto. Nel gennaio del 1863 pare che una di queste prediche provocasse la reazione dell’ingegnere A. Segala, ricco possidente di Sant’Angelo, con un figlio ferito combattendo con Garibaldi, che manifestò direttamente a Dedè la sua indignazione, tanto che si sparse la voce in paese che costui avrebbe minacciato il Prevosto. Le cronache dell’epoca raccontano che molti popolani si riunirono sotto la casa del Segala con atteggiamento ostile, pronunciando minacce, tanto da rendersi necessario l’intervento della Guardia Nazionale.
Lo stesso Francesco Rozza, capitano anziano della Guardia Nazionale, era stato accusato di scarsa collaborazione con le autorità civiche. Aveva suscitato l’indignazione del capitano della Guardia Nazionale lodigiana N. Boroffio perché si era rifiutato di apporre la propria firma ad alcuni appelli, rivolti ai militi, che si concludevano con un “evviva allo Statuto, al Re e all’Italia”. Il ripetersi di episodi di questo genere e le denunzie sporte anche da parte di militi della Guardia Nazionale condussero alla sospensione per due mesi di Francesco Rozza dalle sue funzioni militari.
Ma la sua posizione si aggravò ulteriormente dopo un episodio che fece scalpore anche sulla stampa nazionale. Nella primavera del 1862 infatti egli offrì le sue spalline d’argento di Capitano della Guardia Nazionale a Pio IX, facendo gridare allo scandalo tutta la stampa liberale.
Con la pubblicazione del Sillabo e dell’enciclica Quanta Cura, avvenute nel 1864, Pio IX condannava le dottrine liberali e confermava la legittimità del potere temporale. Annullava così ogni possibilità di conciliazione fra pensiero moderno e Chiesa, isolando quella parte del clero più liberale e rafforzando le posizioni dei clericali che trovavano ora definitiva e indiscutibile legittimazione quali unici rappresentanti dell’ortodossia.
Questa posizione radicalizzò ulteriormente lo scontro con le istituzioni e riaccese l’anticlericalismo più estremo. Nel 1866 infatti la terza guerra di indipendenza creò un clima di mobilitazione nel paese e infervorò il sentimento patriottico. In questo clima le prediche antiitaliane pronunciate dai più attivi rappresentanti del clero vennero in diversi casi considerate veri e propri tradimenti. Le autorità civili reagirono severamente fino all’arresto di membri del clero.
A Sant’Angelo, come abbiamo visto, fatti del genere erano già accaduti negli anni precedenti, solo che questa volta l’arresto toccò direttamente a don Bassano Dedè. Un episodio analogo avveniva nello stesso tempo a Casalpusterlengo con l’arresto di don Luigi Veneroni. A Sant’Angelo quando si sparse la notizia dell’arresto del prevosto, considerato quasi un santo dal popolo, vi fu una mezza rivolta e pare che fossero state “esercitate da taluni violenze ed insulti alle persone note per principi liberali, contro le quali si parla anche di congiure”.
Don Dedè fu mandato al domicilio coatto ad Abbiategrasso dove rimase per tre mesi. Tornato al suo posto a Sant’Angelo tutt’altro che domo e anzi più fermo che mai sui suoi principi fu nuovamente denunziato all’autorità civile nel 1869 per aver negato “di accettare come padrino al fonte battesimale il sig. dott. Gerolamo Tassi di quel luogo nell’occasione in cui doveva essere battezzato un bambino del sig. dott. Giuseppe Zoppegni di quel Borgo. Motivo del rifiuto sarebbe la scomunica in cui il povero Tassi sarebbe incorso per avere fatto acquisto di beni (...) dell’asse ecclesiastico”.
Non ci pare dubbio che queste due personalità, don Dedè e Rozza, avessero con sé la maggioranza della popolazione e ne rappresentassero la guida sul piano spirituale e politico in una situazione nazionale in cui la Chiesa di Pio IX, per ammissione degli stessi liberali rappresentava l’avversario più forte e temibile del nuovo Stato nazionale.
Basti riflettere sul fatto che nella raccolta delle offerte volontarie per il milione di fucili a Garibaldi in paese si riuscirono a raccogliere appena lire 11 a fronte delle 155 lire raccolte a Graffignana e le 488 di Marudo, risultando penultimo tra i comuni dell’intero distretto per consistenza dei contributi raccolti. D’altra parte nelle elezioni politiche del 1860 nel Collegio elettorale di Sant’Angelo fra i due candidati di livello nazionale, l’avvocato Davide Levi e Giuseppe La Farina, prevarrà largamente il liberale Levi, anche se l’elezione non verrà convalidata perchè il numero dei votanti fu inferiore a un terzo degli aventi diritto (a Borghetto per esempio su 200 iscritti alle liste elettorali si presentarono a votare solo 35 elettori).
Ma ciò che è più significativo è che Francesco Rozza, presentato come rappresentante clericale, si piazzò al terzo posto con 12 voti presi tutti a Sant’Angelo.
Angelo Montenegro
(1. continua)
|
|