|
|||
25 Aprile 1945/2013 «El Paginon» è il titolo di una iniziativa editoriale de “Il Cittadino” che dal 1991 al 2004, ha offerto ai suoi lettori riflessioni, testi dialettali e storie lodigiane. Tra i collaboratori dell’inserto ideato da Andrea Maietti, un posto importante era riservato al santangiolino Pino Corsi che con il suo inconfondibile stile letterario, ogni mese con il titolo “Memorie barasine”, tratteggiava fatti e personaggi del suo paese natio. Il testo che pubblichiamo, del gennaio 2001, racconta l’atmosfera che si respirava nella nostra borgata in quel triste inverno di guerra del 1944. Dei purtroppo oramai più di settanta inverni lasciati alle spalle, dopo quello del 1976 quando papà ci lasciò per l’aldilà proprio nel giorno di Natale, il peggiore è stato indubbiamente quello tra il 1944 e il 1945. Il fronte era a poche centinaia di chilometri; gli alleati bombardavano le città industriali a più non posso; era pericoloso viaggiare per i mitragliamenti; c’era il coprifuoco, eravamo occupati militarmente, quasi in ogni famiglia c’era un disperso, un caduto o un prigioniero di guerra e imperava la borsa nera senza la quale non si mangiava. Durante l’estate Sant’Angelo era stato teatro di alcuni fatti tragici, culminati con l’uccisione di due coniugi, genitori di sette figli minorenni ad opera di un triste figuro in camicia nera. La vigilia dell’8 dicembre, preceduti da una breve sibillina telefonata da Lodi, ove erano appena arrivati in treno da Pordenone con una valigia ciascuno, capitarono a casa nostra Luigia, una prima cugina di mio papà, suo marito Ferdinando e i loro tre figli dai 15 ai 10 anni. Ferdinando, colonnello effettivo dell’esercito, dopo l’8 settembre ’43 si era schierato con i partigiani-badogliani della brigata Osoppo, operante nel Friuli che in quei giorni era stata sgominata e dispersa con i suoi ufficiali condannati a morte. In famiglia eravamo in undici, papà, mamma, nonna Ada e otto figli dai 18 anni di Anna Maria ai pochi mesi di Ada e nei fine settimana spesso arrivava anche zio Mario, allora scapolo, che lavorava a Milano. Ci adattammo, ci stringemmo, annacquammo le ministre, corremmo, col dirla col Puzo de “I padrino”…ai materassi; i nuovi arrivati dovettero privarsi di ori e ricordi famigliari, ma tutto andò per il meglio. In quegli anni davvero bui, concedere ospitalità e rifugio a sfollati, bombardati, esuli, ricercati era un fatto quasi normale. Ci furono famiglie che nascosero prigionieri alleati evasi e persone ebree rischiando deportazione e fucilazione. Mi piace però ricordare due episodi meritevoli di essere menzionati, perché forse sconosciuti ai più. Quello di un anziano operaio di borgo San Rocco con famiglia numerosa che si prese in casa considerandola come nuova figlia una nipote rimasta orfana dopo un bombardamento su Milano e quello di un noto laicissimo direttore di banca che ospitò l’intera famiglia (moglie e due figli) di un cognato deportato in Germania (e poi morto) curandola e provvedendovi per anni fino a quando i suoi componenti non furono in grado di farlo da soli ma sempre col suo aiuto invero paterno. Ferdinando era un napoletano…verace, molto estroverso e simpatico, capace di fare mille mestieri. Pochi giorni dopo il suo arrivo aveva già riattato e reso servibili mobili e suppellettili che riposavano in soffitta. Per ovvii motivi non usciva di casa; eravamo la mamma e io in bici a “battere” cascinali e molini alla ricerca di uova, farina, burro, olio e cotechini. Da buon ufficiale di carriera era un po’ fanatico. Terrorizzato dai bombardamenti e mitragliamenti che aveva provato a subire, col solo aiuto di un manovale in pensione dell’impresa Conti, costruì in cortile un rifugio antiaereo utilizzando per il legname quella di una bella e forse centenaria magnolia, orgoglio di nonna Ada che curava con autentico… “pollice verde” il giardino. Una bomba, l’unica su Sant’Angelo, arrivò a guerra quasi finita a 50 metri in linea d’aria, facendo saltare tutti i vetri di casa. Il rifugio servì per gli svaghi guerreschi dei miei fratellini e dei loro amichetti. Ferdinando e i suoi, dopo i primi giorni di vita in comune con noi prendevano i pasti in una saletta che era diventata insufficiente a contenere noi. Dopo cena ci si riuniva tutti assieme nella sala da pranzo, l’unica riscaldata, dove ci si dava a interminabili giochi di carte, e giri di “Monopoli”. Dopo che i piccoli se ne erano andati a dormire, con mille precauzioni, si ascoltavano “Radio Londra” o “La voce dell’America”, (“È Fiorello La Guardia che vi parla”). La sera dell’Epifania, poco prima del coprifuoco, inaspettato, arrivò a casa nostra anche il nipote forse prediletto della nonna, Gianni, ingegnere quarantenne, figlio di suo fratello Piero. Due dei tanti fratelli della nonna avevano scelto la carriera militare arrivando al grado di generale, Piero e Cesare, padre della nostra ospite-fuggiasca Luigia, moglie di Ferdinando. Gianni aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana ed era in divisa di ufficiale dell’esercito di Graziani con i “gladi” al posto delle stellette. Non era ovviamente a conoscenza della presenza da noi dei suoi cugini né delle vicissitudini che li avevano costretti a venirci. L’incontro-scontro fra Gianni e Ferdinando mi aveva allora fatto toccare con mano cosa significhi “guerra civile”, con appartenenti alla stessa famiglia, a volte anche fratelli, che si combattono fra loro. Ognuno di loro difendeva la propria scelta di campo e la propria convinzione, dapprima pacatamente, ma più tardi, dopo che i piccoli se ne erano andati a letto, con toni accesissimi e con reciproche accuse di tradimento. Il tono delle voci aumentava a dismisura. In mezzo a loro c’era mio padre, deluso dal fascismo cui aveva appartenuto durante il ventennio, visceralmente attaccato all’ancorché “fellone” suo re, oberato da una famiglia pesantissima, ma che non essendo affetto da manicheismo capiva che non tutti, anche in perfetta buona fede, potessero pensarla allo stesso modo. I suoi reiterati tentativi di calmare gli animi, di sdrammatizzare la situazione moderando se non altro i toni della discussione, parevano inutili e forse solo le lacrime di nonna Ada impedirono ai due cugini di venire alle mani. Poi Ferdinando, trascinato dalla moglie, si allontanò. Non ricordo in quale camera e “…a cò e pé” (forse!) con chi dormì o per lo meno si riposò Gianni quella notte. Come spesso accade, la notte portò consiglio e il mattino dopo, prima della sua partenza nonna Ada e papà riuscirono a far si che Gianni scambiasse con Ferdinando e Luigia un abbraccio, nel nome della numerosa e fino ad allora unita famiglia cui appartenevano e della così martoriata Italia che tutti amavano profondamente pur se da posizione e con ideali così diametralmente opposti e lontani. Pino Corsi. |
|