In Africa, tra i malati del Burkina

La storia di Natale. L’esperienza del medico santangiolino Alice Brambilla, per quattro mesi in uno dei paesi più poveri al mondo.
di Lorenzo Rinaldi


Alice Brambilla è nata a Sant’Angelo Lodigiano nel 1987 e qui è cresciuta insieme ai genitori e alla sorella Sara. All’età di 18 anni, dopo aver conseguito il diploma scientifico presso il Liceo “Taramelli “ di Pavia, si è iscritta alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Pavia. L’anno successivo alla laurea si è trasferita a Firenze, con il suo ragazzo Andrea, per proseguire la formazione presso l’Ospedale Pediatrico Anna Meyer, dove attualmente frequenta il terzo anno della Scuola di Specializzazione in Pediatria. Il 26 giugno 2015 è partita per il Burkina Faso, dove ha prestato servizio in un ospedale pediatrico.
Perché la scelta di diventare medico e pediatra?
Cosa ti ha spinto a partire per l’Africa?

“Quando ero una bambina rimasi molto colpita dalle immagini televisive dei piccoli africani. Mi sembrava ingiusto che ci fossero così tante differenze tra me e loro solo perché avevamo avuto rispettivamente la fortuna e la sfortuna di nascere in due diversi Paesi. Decisi quindi che sarei diventata medico e sarei partita verso un Paese a risorse limitate per contribuire ad appianare questo divario. Crescendo ho capito che la situazione era un pochino più complessa, ma sono rimasta convinta che un’esperienza in un Paese così diverso dal nostro sia fondamentale nella formazione di un giovane medico, sia dal punto di vista umano che professionale”.
Dove sei andata? Che situazione hai trovato al tuo arrivo?
“Ho lavorato per quattro mesi a Nanoro, un villaggio distante circa 50 chilometri dalla capitale Ouagadougou. Lasciata la capitale, che si presenta estremamente caotica e polverosa come spesso appaiono le maggiori città dei paesi meno sviluppati, il paesaggio cambia rapidamente in distese di terra rossa e campi di miglio. La percezione di estrema povertà è immediata, le persone si spostano a piedi o sedute su asini, lavano i pochi vestiti che possiedono nei rari fiumi artificiali e preparano frittelle seduti a terra ai bordi della strada. Spesso si incontrano bambini nudi e scalzi che portano a pascolare qualche mucca o pecora”.
In quale struttura hai lavorato?
“Sono stata ospitata dal Centro Medico San Camillo, considerato uno dei punti di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutto il Paese, ma anche degli stati limitrofi. La struttura comprende alcuni reparti (medicina generale, maternità, pediatria), un centro di recupero per la malnutrizione, un blocco operatorio e una farmacia, oltre alle case dei medici e al convitto dei frati camilliani. Da circa sei anni l’Associazione Madirò, tramite la quale sono partita, gestisce la collaborazione tra l’ospedale Meyer e la pediatria di Nanoro, consentendo un invio costante di medici, farmaci e aiuti economici per chi non si può permettere le cure”.
Quale difficoltà ha trovato nel suo lavoro sul campo una giovane donna medico europea?
“Nonostante il Centro Medico San Camillo sia una struttura molto avanzata per il contesto in cui si trova, la differenza con un ospedale di medio livello italiano è abissale. La fornitura di farmaci è discontinua, il sangue per le trasfusioni spesso finisce, l’ossigeno per le patologie respiratorie è quasi un miraggio. Non c’è la possibilità di eseguire esami diagnostici affidabili e bisogna basarsi sulle proprie conoscenze e capacità pratiche, oltre ad avere una buona dose di intuito e di fortuna. Non esiste il concetto di prevenzione e spesso bisogna lavorare in urgenza. In molte occasioni semplicemente non si può fare niente se non decidere se inviare il paziente a morire a domicilio o vederlo morire in ospedale. Per un medico europeo tutto questo è estremamente difficile da accettare e talvolta è impossibile credere che tali situazioni esistano realmente a distanza di 10 ore di volo da casa nostra”.
Quali gli ostacoli culturali?
“Una differenza culturale a cui è difficile far fronte è proprio l’approccio alla malattia e alla morte. Gli africani sono purtroppo abituati a vedere morire adulti e bambini ogni giorno, per cui sostengono con un certo fatalismo che “così doveva andare”, anche quando magari si sarebbe potuto fare di più. Abituati al nostro mondo in cui ci occupiamo di più cose contemporaneamente cercando di ottimizzare i tempi, lavorare con chi si approccia alla vita con estrema calma e non ha percezione dell’urgenza né particolare intraprendenza non è per niente facile”.
Come è stato il rapporto con la popolazione di fede islamica? Ti sei imbattuta in qualche forma di fanatismo religioso?
“Il Burkina Faso è un Paese decisamente tollerante e non ho mai avuto la percezione di tensioni tra persone appartenenti ad etnie e religioni diverse. La chiesa cristiana costruita nel centro medico è affiancata da uno spazio dedicato alla preghiera per i musulmani, che più volte al giorno stendono i propri tappeti per pregare. Tutto il Paese partecipa alle festività sia cristiane che musulmane e le persone si invitano nelle reciproche abitazioni per fare festa tutti insieme. I matrimoni tra uomini e donne di credo diverso non sono infrequenti”.
Quali le patologie più diffuse?
“In ambito pediatrico il problema principale durante la stagione delle piogge è la malaria. Mentre gli adulti contraggono in genere forme lievi, nei bambini la malaria si presenta spesso in forma grave con convulsioni e anemia severa che necessita di trasfusione urgente. Tanti piccoli pazienti arrivano in ospedale troppo tardi e muoiono prima di ricevere le cure. Un altro importante problema è la malnutrizione severa e complicata da infezioni di vario tipo. Tali bambini spesso sono abbandonati o orfani e vivono con qualche zia o nonna che non sempre si prendono cura di loro. Altre patologie comuni sono le meningiti e le polmoniti, ma anche gli avvelenamenti da morsi di serpente. Infine abbiamo visto diversi bambini provenienti soprattutto dalla Costa d’Avorio con masse tumorali”.
Qual’è il ricordo più bello che ti sei portata a casa?
“Sicuramente la soddisfazione di vedere guariti bambini arrivati in ospedale in condizioni disperate. Dopo averli visti in coma, ritrovarli seduti nel proprio letto a mangiare con le proprie mani è davvero una gioia. Un altro ricordo piacevole è il cielo stellato notturno. Nel villaggio non c’è l’illuminazione artificiale per cui durante la notte è necessario spostarsi con delle torce. Se si alza lo sguardo però si vede un’incredibile distesa di stelle attraversate dalla via lattea”.
Sei ripartita con qualche rimpianto?
“Sono ripartita in anticipo a causa del colpo di stato che si è verificato nella capitale in occasione delle prime elezioni democratiche del Paese. Ci sono stati scioperi generali anche tra il personale sanitario e la gestione dei malati è diventata ancora più complessa. Vista la situazione i nostri responsabili hanno considerato più sicuro il rimpatrio. Nonostante fossi pienamente d’accordo con questa decisione, la partenza non è stata facile perché avevamo un po’ l’impressione di voltare le spalle ad un Paese bisognoso nel momento di maggiore bisogno”.
Torneresti?
“Durante la mia permanenza ho lavorato molto senza avere molte possibilità di lasciare il villaggio. Mi piacerebbe tornare per poter visitare meglio il Paese”.
Cosa possono fare di concreto gli italiani per aiutare queste popolazioni?
“Investire in progetti di educazione e scolarizzazione. L’invio di denaro, farmaci, vestiti o giocattoli è sicuramente utile a breve temine, ma nel tempo instaura una sorta di dipendenza dai paesi più ricchi. In campo medico molte patologie sarebbero prevenibili attraverso una maggiore attenzione all’igiene, alla gestione della casa e alla cura dei figli, ottenibili attraverso l’educazione delle donne che spesso ignorano persino le norme igieniche di base. Le famiglie in cui i genitori hanno studiato hanno in genere un numero minore di figli ma ben nutriti, vestiti, e che a loro volta frequentano la scuola. I bambini scolarizzati hanno maggiori possibilità di trovare un lavoro migliore rispetto a vendere frittelle ai bordi delle strade. Ho conosciuto ragazzi che avevano molte idee per aiutare il proprio Paese, ma nessun mezzo per pagarsi gli studi e raggiungere i propri obiettivi. Penso che solo investendo su persone locali valide il Paese possa progredire”.
In Burkina esiste la percezione del dramma dei barconi? L’Europa rimane un miraggio?
“I bianchi sono sinonimo di ricchezza e vita agiata e, soprattutto nelle zone rurali, la gente è convinta che da noi si possa ottenere tutto senza fatica. Le persone che ci incontrano per strada spesso chiedono vestiti o denaro e a noi non costa niente donare ciò che per noi è addirittura superfluo. Tuttavia questo spesso rafforza l’immagine che da noi tutto sia gratuito e facile da ottenere. Chi parte non ha nessuna consapevolezza delle condizioni del viaggio e ignora che, anche nei casi più fortunati, andrà a lavorare nei campi, come collaboratore domestico o come venditore ambulante”.
Qual è la condizione della donna in Burkina Faso?
“Le donne in Burkina Faso si occupano praticamente di tutto, dalla gestione della casa e dei figli, al lavoro di semina e raccolto nei campi, senza avere di fatto potere decisionale rispetto al marito. Le donne scolarizzate possono trovare lavoro come infermiere, venditrici di stoffe e articoli d’artigianato, segretarie o anche medici, ottenendo una propria autonomia e indipendenza. La poligamia è una condizione abbastanza diffusa nel Paese”.
Ti sei arricchita di più dal punto di vista umano o professionale?
“Entrambi. Vivere alcuni mesi a contatto con questo popolo aiuta a realizzare che siamo troppo preoccupati di volere controllare e organizzare tutto, e quando le cose vanno diversamente da come ci aspettavamo ce la prendiamo troppo. Inoltre ti rendi conto di quante cose non siano necessarie per vivere comunque serenamente, le stesse cose che prima di partire ti sembravano indispensabili e che volevi a tutti i costi infilare in valigia. Per quanto riguarda l’aspetto professionale ho decisamente arricchito il mio bagaglio di conoscenze, ma ho anche imparato molto dal punto di vista pratico. In Italia si lavora in team e, per i medici in formazione, con la supervisione di colleghi più esperti a cui rivolgersi in caso di dubbi.
In Africa diventi improvvisamente medico generale e specialista, radiologo e neonatologo, a fronte di patologie spesso diverse dalle nostre, per cui è necessario imparare tanto e velocemente”.