Nei cortili del borgo, sulle tracce di uno scrigno di inestimabili ricordi.
di Lorenzo Rinaldi
Attraverso gli “Stati d’Anime” dell’Archivio parrocchiale, che dalla metà dell’Ottocento indicavano anche la professione degli abitanti, abbiamo la possibilità di avere un quadro della composizione sociale degli abitanti di Borgo San Martino, con una concentrazione di artigiani di ogni tipo, quasi tre volte maggiore di quelli degli altri quartieri, che dava alla contrada una particolare fisionomia rispetto agli altri borghi.
Tipica di Borgo San Martino era la lavorazione dei pizzi al tombolo da parte delle donne che si dedicavano alla produzione di pizzi, merletti e ricami, che gli uomini del quartiere (i cosiddetti “pizzè”) smerciavano fino a Genova - attraverso i valichi piacentini delle valli di Bobbio - insieme ai cordami per gli usi marinari (di qui l’ipotesi sull’origine di alcune somiglianze tra il dialetto genovese e quello barasino).
Attività che dovrebbe aver proseguito fino ai primi anni del Novecento, stante i dati degli “Stati d’Anime” del 1904 che documentano ancora diciannove “pizzè”.
L’orgoglio dei cordai
La categoria più diffusa era però quella dei cordai, che nel 1860 contava 77 operai, mentre nel 1893 aumentavano a 144, per scendere nel 1904 a 15 unità.
Anche se la paga non era elevata, aveva il vantaggio di essere corrisposta quasi tutto l’anno, dando una sicurezza economica che altre categorie non avevano.
È facile quindi immaginare l’orgoglio dei cordai per il loro mestiere e il senso di appartenenza alla categoria e al quartiere. Un senso di appartenenza che fino a pochi anni fa sembrava scemare - forse a causa del fatto che quello dei cordai era un lavoro umile e faticoso - e che invece, nell’ultimo periodo, sta prepotentemente tornando alla ribalta. |
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A Borgo San Martino vivono ancora alcuni “curdè” che possono offrire una testimonianza di questo tipo di professione: sono però sempre meno e la loro memoria diretta si ferma nella maggior parte dei casi a 60/70 anni fa. Rappresentano uno scrigno inestimabile di ricordi ed entrare nei loro cortili, nei loro “santé” (per chi ancora li conserva) è come fare un vero tuffo nel passato, in una Sant’Angelo che non esiste più. Uno di loro è Rosario Arisi, classe 1953, che all’inizio di ottobre ci ha aperto la porta di casa sua, in via San Martino, riportandoci indietro nel tempo di mezzo secolo, quando sul “santé” di famiglia, lungo un centinaio di metri, si producevano cordami di varie dimensioni con attrezzi che oggi, almeno in parte, il padrone di casa conserva ancora.
Cordai da tre generazioni
La famiglia Arisi ha iniziato a fabbricare la corda con Agostino, classe 1899 (il nonno di Rosario Arisi): siamo negli anni Trenta del secolo scorso e, dopo alcuni anni al lavoro come ambulante (“ricordo che quando ero piccolo, in famiglia, si diceva che andava a Milano in bici, probabilmente a vendere la tela”, dice Rosario) Agostino impianta il proprio “santé”. Il capostipite morirà nel 1963 e l’attività di famiglia verrà portata avanti dal figlio, Angelo, classe 1925, che lavorerà fino al 1980 (nel pieno della crisi dei cordai) e morirà nel 1988. Rosario Arisi ha lavorato sul “santé” di via San Martino per sette/otto anni, prima di andare a militare. Al ritorno lo aspetta il lavoro in fabbrica, alla cartiera, e così lascerà il mestiere del “curdè”, limitandosi ad aiutare i genitori nel tempo libero. “Fino alla fine degli anni Cinquanta le cose andavano bene - ricorda -, negli anni successivi si iniziò a intravedere la crisi causata dall’avvento delle fibre sintetiche, dall’onda lunga del boom industriale e dalla carenza di manodopera dettata dal fatto che molti giovani preferivano andare a lavorare nelle fabbriche”.
Le famiglie storiche
Mentre racconta, Arisi fa continui riferimenti alle altre famiglie di Borgo San Martino che fabbricavano la corda. E così gli chiediamo di tratteggiare una mappa dei principali produttori e di indicarci dove erano i loro “santé”, con una precisazione: lasciandoci alle spalle largo Cairoli e guardando verso la circonvallazione, la maggior parte dei “santé” si trovava alla nostra destra; meno numerosi quelli sulla sinistra della via, in direzione di San Bartolomeo. Arisi ricorda almeno una decina di famiglie, alcune delle quali ramificate in più aziende. C’era la famiglia Scarioni, che aveva il “santé” in via Cordai, poco distante dalla attuale caserma dei carabinieri: nel corso del tempo era stato coperto da un capannone, abbattuto in anni recenti. C’era poi la famiglia Trabucchi, molto numerosa e di cui parleremo anche in seguito: il capostipite era Costante, al lavoro nel corso degli anni poi ci furono i figli Achille (con il figlio Giuseppe), Giuseppe (con il figlio Costantino), Battista e Gina. Achille e Giuseppe producevano prevalentemente cordami di grosse dimensioni, ad uso navale; Battista e Gina soprattutto spaghi. Achille Trabucchi, detto “Chilén”, aveva un “santé” di ben 196 metri.
L’elenco prosegue con la famiglia Abbiati (detto “el gügia”) che aveva il “santé” in via San Martino, così come la famiglia Lunghi (i fratelli Teresina e Francesco, che ereditarono l’attività dal papà, vennero intervistati da “Il Ponte” alcuni anni fa). Aveva il “santé” su via San Martino, ma dal lato opposto della strada, dunque verso San Bartolomeo, la famiglia Bersani, mentre due erano le famiglie Saletta, una in via San Martino (in questo caso il “santé” era in una corte il cui ingresso oggi è di fronte alla caserma dei carabinieri) e l’altra al Lazzaretto.
Al Lazzaretto c’erano poi le attività della famiglia Abbiati e quella della famiglia Pasetti, avviata dal papà dell’ex sindaco Gino Pasetti (in questo caso il “santé” era dietro la casa dello storico primo cittadino).
Nel quartiere delle Vignole, producevano corda i Pasetti e gli Abbiati, mentre tornando a Borgo San Martino un altro “curdè” si trovava nell’attuale via De Gasperi.
Cordai fin da piccoli
La memoria di Rosario Arisi torna alla sua giovinezza. “Ricordo bene un’estate, sul “santè” di famiglia eravamo in 18, tutti di Sant’Angelo, dai 12 anni in su. Alcuni facevano il cordaio di lavoro, come operai, altri venivano solo in estate ed erano perlopiù ragazzini liberi dalla scuola”. L’estate era il periodo in cui si lavorava di più, principalmente per due ragioni.
La prima è che i “santé” erano all’aperto e dunque si sfruttava la luce del sole (“Alle 6 del mattino si iniziava”). La seconda è che con il caldo la corda, bagnata e “smagliata” dentro una vasca dotata di “pettini” per togliere le fibre in eccesso, asciugava prima. Non è un caso che talvolta il prodotto finito veniva rifiutato dai grossisti in quanto ancora umido (il rischio era l’insorgere della muffa nella fase dello stoccaggio prima della vendita al dettaglio) e infatti Arisi ricorda che per far asciugare bene le fibre si portava la corda in casa e la si appendeva al soffitto.
Teoricamente i cordai lavoravano tutto l’anno, anche se le rigide temperature della Pianura Padana dettavano legge.
In inverno c’erano giorni in cui era impossibile stare sul “santé” perché la corda bagnata tendeva a gelare, in altri nel pomeriggio scendeva una nebbia talmente fitta da impedire la vista tra un’estremità e l’altra.
(1 - continua
nel prossimo numero)
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A sinistra Rosario
Arisi, tiene tra le mani “el
mas” che permette alle
quattro corde, attraverso
scannel- lature, di far scorrere
separatamente le corde.
Sotto, alcuni strumenti di
lavoro dei cordai, la tavola
con le quattro ruote è chiamata
“el curiö”, mentre i
ganci i “garbìu”, che possono
essere di misure più
grandi, insieme a “el curiö”
permettono di intrecciare i quattro fili per avere il risultato
finale di una corda
unica.
Foto di Emilio Battaini
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