Liliana Segre narra in prima persona la “sua” storia di bambina ebrea laica a Milano, partendo …dalla casa di Via Magenta.
Racconta della sua infanzia a casa dei nonni paterni perché orfana di madre a soli 11 mesi (la madre muore a 26 anni per un tumore all’intestino), dell’espulsione da scuola a causa delle leggi razziali del 1938 e del tentativo di suo padre Alberto, commercialista (laureatosi alla Bocconi) nella ditta di famiglia, di metterla in salvo facendola frettolosamente battezzare; tentativo peraltro inutile perché lei sarà comunque arrestata durante il tentativo di fuga in Svizzera: un italiano (ucciso a guerra finita), per 5000 lire, aveva venduto tutta la famiglia Segre ai tedeschi.
Nel 1944 Liliana viene separata da suo padre e portata nel campo di Auschwitz dove per molti mesi deve caricare e scaricare, a mano, blocchi di pietra e quel lavoro così faticoso, che le danneggerà permanentemente la colonna vertebrale, le permetterà, per contro, di “vivere” (…si fa per dire…!) e respirare all’aria aperta. Nel lager incontra persone che ritroverà a Milano e soprattutto impara la differenza tra vedere e guardare. Guarda la sofferenza e la disperazione, ma soprattutto vede la schiavitù, il tutto nella più completa solitudine, ma la “cosa” che più la fece soffrire - come dichiara frequentissimamente - fu la solitudine …la solitudine del prigioniero numero 75.190: LEI!
In un passo del libro, mediante una prosa piana, regolare ma efficacissima, l’autrice testimonia di aver visto nel lager “donne chiuse in gabbie, pelose come scimmie, scheletriche che ululavano come bestie, erano donne usate per esperimenti scientifici”.
Finalmente nel 1945 viene liberata e lei stessa racconta che pesava 32 kg, aveva solo 14 anni e non aveva più nulla e nessuno, doveva solo rimpatriare e l’arrivo a Bolzano fu difficile e complicato sia per la mancanza di cibo (lei e i compagni di viaggio mangiarono a morsi la carne cruda di un cavallo morto trovato sul ciglio di una strada di campagna), sia per la solitudine fisica e psichica con la quale tutti gli ebrei dovettero purtroppo misurarsi.
A Milano apprende della morte del padre, poi si trasferisce dagli zii e inizia, per lei, un periodo difficilissimo nel quale la bulimia la porterà a diventare grassa e goffa, ma ben presto comprende che per ritornare alla normalità deve necessariamente riprendere gli studi, così decide di terminare il liceo classico e di studiare lingue estere. La sua vita arriva ad una svolta positiva quando, in vacanza a Pesaro, conosce Alfredo - futuro marito - col quale avrà tre figli: Alberto (il nome di suo padre), Luciano e Federica; lei stessa racconta che Alfredo l’ha sempre protetta, aiutata e seguita senza mai minimizzare stati d’animo e paure e che suo marito, per non gravarla di ulteriori insopportabili pesi, mai le ha parlato della prigionia che anch’egli aveva subito.
Era già madre quando iniziò ad avere attacchi di panico unitamente alla impossibilità di riuscire a parlare in pubblico e queste limitazioni la tennero prigioniera, ancora una volta, per dieci lunghi anni. Lavorò anche, con successo, per la ditta di uno zio vincendo insicurezze e paure. Per circa cinquant’anni non raccontò mai, ad estranei, la sua tragedia ad Auschwitz… poi maturata la consapevolezza che il passato, seppur doloroso o tragico, va affrontato e condiviso… decide di “arrivare” con la sua testimonianza diretta nelle scuole, agli studenti di tutte le età, perché - come ribadisce Liliana - è stata l’indifferenza dei molti a causare la tragedia della Shoah e lei stessa - pur dichiarandosi agnostica - sottolinea con fermezza che: “di essere ebrei non si smette mai”.
Caterina Avogadri
Ah! … dimenticavo: il libro è adatto proprio a tutti … a chi ama leggere e a chi no; a chi apprezza la storia e a chi fugge lontano dai libri di storia; a chi ha studiato discipline diverse dalle umanistiche e a chi non ha studiato; a chi sa far di conto, ma non legge mai; a chi è giovane e fatica a concentrarsi e a chi -come me- giovane non lo è più da tempo. Leggetelo, non è difficile, la prosa rasenta quasi il parlato, vi piacerà!
Grazie.