di Angelo Pozzi
Due settimane di febbre oscillante tra 37,5 e 39 °C, poi la telefonata al numero verde 800… la voce che dall’altra parte ti fa alcune domande ed alla fine ti dice: “Entro tre o quattro ore arriverà l’ambulanza per portarla in ospedale”.
Oltre tre settimane di ricovero: i primi otto-dieci giorni passati immerso in un malessere estremo, con somministrazione di medicinali a raffica (di chissà quale genere) e siccome la situazione non migliora abbastanza, sotto ossigeno (non in terapia intensiva, però). Maschera completa per parte del giorno e per tutta la notte e poi il lento recupero, comunque con l’ausilio dell’ossigeno fino al penultimo giorno prima della dimissione.
Intanto in ospedale si succedevano avvenimenti di ogni genere. Nessuno allegro.
Dalla morte, nel letto accanto al mio, di un ottantacinquenne dopo due giorni di agonia, alle intemperanze di alcuni pazienti, alla serena sopportazione di altri per le limitazioni, le cure, i prelievi, alcuni dolorosi e ripetuti anche più di una volta al giorno.
Dall’altra parte l’abnegazione, la serenità, la tranquillità, la fermezza, la gentilezza, la pazienza infinita, a volte l’eroismo di medici, infermieri e di tutto il personale coinvolto (compreso quello delle pulizie) nell’assistenza ai malati. Tutti indaffarati, tutti instancabili, ma tutti stanchissimi al termine dei turni che si susseguono incessanti. Tutti in condizioni operative rese ancor più difficili dalla pesantezza del vestiario (a strati), da maschere, occhiali, schermi protettivi per il viso, cuffie, guanti e calzari, per tentare (tentare) di proteggersi dal contagio. Tutti accaldati nelle stanze con temperature adatte per i pazienti, ma faticose da sopportare per chi è super coperto ed è costretto a muoversi rapidamente e continuamente per le esigenze dei degenti, che aumentano ogni giorno con l’aumentare della gravità o del numero dei ricoverati. Veramente tutto il personale ospedaliero meriterebbe un monumento a memoria perenne: memoria di loro e memoria di questa terribile epidemia globale, mai vista in passato e, fino ad oggi, nonostante le innumerevoli cose che si leggono sulla stampa o vengono diffuse nella rete, sostanzialmente sconosciuta.
Almeno per ciò che riguarda misure mediche preventive (vaccini), terapie mirate sicuramente efficaci, possibilità di ricadute, effetti a breve e lungo termine sull’apparato respiratorio. Il coronavirus demolisce il tessuto polmonare: non è ancora dato sapere se gli alveoli distrutti si riformeranno ed in quanto tempo o se rimarranno limitazioni permanenti per l’efficienza respiratoria.
Vedremo.
Adesso sono a casa, in quarantena, ma a casa. Dovrò sottopormi ad esami e visite di controllo, dal cui esito favorevole dipenderà l’accertamento della mia guarigione.
Il rientro è certamente una cosa rasserenante e confortante: si torna nel proprio ambiente, in famiglia. In ospedale si stava come in un mondo diverso; le notizie da fuori ci facevano sapere come andavano le cose nel mondo dei cittadini normali. Noi (io e gli altri pazienti che condividevano le stesse sensazioni) ci sentivamo in un mondo a parte, sospesi, con limitazioni pesanti ma sopportate serenamente. La somministrazione continua dell’ossigeno nell’arco di tutte le 24 ore (se pur con strumenti diversi) ci costringeva ad un elevato grado di immobilità: quasi sempre sdraiati o seduti a letto; qualche passo, ma non più di tre o quattro, attorno al letto, vincolati dal “guinzaglio” del tubo di alimentazione della maschera dell’ossigeno. Una penitenza ed un indebolimento continuo dell’efficienza muscolare. A casa sono tornato “fiàche ’me ’na rana” (come recita una vecchia similitudine dialettale santangiolina).
Adesso spero di rimettermi presto in sesto e tornare alla vita reale e diretta di relazioni e di attività.
Ma non sarà più come prima. Io lo penso e altri la pensano come me. Però non sappiamo ancora come sarà per moltissimi, importantissimi motivi prevedibili ed ancor più per motivi che, per ora, non possiamo nemmeno immaginare, ma che comunque non potranno non avere un effetto più o meno incisivo su quello che fino a ieri è stato il nostro modo di vivere. Credo che non sarà più lo stesso. Mi auguro, anche se temo non sarà così, che tutti, ma proprio tutti traggano da questa catastrofe non ancora conclusa, i migliori insegnamenti per una futura esistenza umana degna di questo nome e rispettosa dell’ambiente in cui la viviamo. Non siamo i padroni della Terra, non siamo i despoti della Natura. Siamo una cosa molto fragile che un virus è in grado di frantumare in poco tempo.
Ricordiamoci che altre catastrofi (in tempi remoti o più recenti) hanno messo a dura prova gli uomini ed altre ancora potranno accadere in futuro. Non sappiamo di che genere.
Ma dobbiamo impegnarci a immaginarlo e a costruire per tempo modalità di prevenzione o di difesa.
Dobbiamo impegnarci tutti e totalmente. Altrimenti il genere umano potrebbe essere annientato. Non la Terra e la Natura che hanno visto scomparire moltissime altre specie animali: l’uomo, per loro, sarebbe solo una di queste.
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