Elogio degli ambulanti: santangiolini e non

di Emanuele Maestri

Il mio primo contributo per “Il Ponte” doveva essere incentrato su un altro argomento. In corsa, però, ho cambiato idea. Il tutto è dovuto ad un sabato mattina. Ero a Casalpusterlengo dal prestinaio; nell’attesa del mio turno i miei occhi si sono soffermati sul video che veniva proiettato sul televisore del negozio, che riassumeva la storia centenaria dell’attività di famiglia. Proposta con molto orgoglio.
E, allora, la mia mente ha riportato alla memoria la storia più che secolare della mia famiglia. La famiglia Maestri. Verˆsè e frütarö da semper. Ho tracce dell’attività di ambulante di frutta e verdura da Ambrogio, passando per Domenico, arrivando ai suoi figli Battista, Giuseppe e Giovanni (mio nonno) e infine (in…fine in tutti i sensi) a mio papà Antonio. Un’attività commerciale già esistente nel Regno Lombardo Veneto, con tanto di licenze ad attestare il passare del tempo e la regolarità dell’attività esercitata.
Così come la mia, tante altre famiglie santangioline: famiglie di ambulanti, commercianti di ogni genere di mercanzia; deperibile e non. Una storia secolare fatta di gente laboriosa, con grande capacità comunicativa; un eloquio splendido e una capacità di vendere qualsiasi prodotto. Il santangiolino potrebbe vendere con estrema facilità qualsiasi oggetto dando al cliente la soddisfazione stessa di aver acquistato un qualcosa senza sapere nemmeno cosa.
Oggi, dopo più di un secolo, l’attività di famiglia si è interrotta. Io faccio altro. Addirittura, ho scavalcato la staccionata e da “controllato” sono diventato “controllore” come in maniera di certo più colorita mi ricordava sempre mia nonna Cristina. Ma anche nella mia professione, che si accompagna ad una disciplina militare stringente, non faccio mancare - e non poche volte mi viene sottolineata - la mia santangiolinità di cui vado orgoglioso. E che talune volte mi fa essere un militare che cerca di comprendere, quando un militare non è chiamato essenzialmente a comprendere, ma ad eseguire l’ordine e a far successivo rapporto. Io porto meco quest’animo santangiolino; questa curiosità; questa voglia di capire il perché di alcuni fatti che succedono e non solo a reprimerli. Sì, perché avere nel dna il commercio fa essere a contatto con la gente. Fa capire chi si ha davanti e il perché quella persona ha fatto una determinata cosa o ha tenuto un certo comportamento.
Il commerciante, l’ambulante conosce la vera vita, quella della gente comune con cui, nel bene e nel male, si convive. L’ambulante è sulla strada; è sullo stesso piano di coloro che vengono a servirsi al banco; ne percepisce gli umori; con il cliente parla dei figli, parla di politica e il solo parlare è condivisione. Il mercato fa comunità; toglie l’uomo solo dalla solitudine della società. Dalla comunità virtuale si passa alla comunità solidale, alla comunità in cui si fanno parole; magari parole di troppo, ma almeno si fanno. Si fanno e non si scrivono. Il cellulare c’è, ma non è il protagonista.
Nelle civiltà antiche la struttura della città nasce sempre con al centro il tempio per venerare la divinità, vi è la basilica intesa come istituzione civile, c’è la piazza dove si ritrova la comunità, ci sono i negozi per lo scambio, per i rapporti economici. C’è il foro ...c’è il mercato. Ci sono gli ambulanti. C’è lo svolgimento dell’attività quotidiana. C’è l’acquisto del bene per soddisfare il bisogno. Ma c’è anche l’appagamento del bisogno di essere persone parte di una comunità, insieme di rapporti sociali, conoscenze che si fanno anche al mercato. Si fanno di persona.
E anche i centri commerciali moderni, sono a tutti gli effetti dei grandi mercati. Il centro città si è spostato. Non è più vicino alla chiesa, nella piazza centrale dove si affaccia il municipio, non è più necessariamente sul corso, ma si è trasferito al centro commerciale, dove di certo vi è un impoverimento delle relazioni personali, ma pur sempre vi è un mercato, seppur depersonalizzato. È la piazza del nuovo millennio. Il commercio non morirà mai. Si modifica, come al tempo del coronavirus: molti si sono reinventati e si sono reinventati bene.
I tempi cambiano e così anche i lavori. Il modo di spendere. Il mercato non è più lo stesso. Anche il mercato ambulante santangiolino (mercato storico, più che secolare) ne è lo specchio: i banchi di proprietà straniera sono la maggioranza.
Il commercio cambia, ma rimane. Cambia nella continuità, ma cambia. Il cambiamento ha portato con sé uno stravolgimento sistemico e un impoverimento generale economico. Infatti, se in precedenza fare l’ambulante era sinonimo di benessere, oggi non lo è più. È sinonimo di precarietà; di fatica nel lavoro; di sabati e domeniche a fatturare senza sosta. È sinonimo di oligopolio straniero, poiché la maggioranza degli ambulanti è straniera. Ma è anche segno di integrazione. Sì, il commercio fa integrare, perché lo straniero compra dall’italiano e l’italiano dallo straniero. È un insieme di colori, lingue. Porta all’integrazione, nel rispetto, però, delle leggi e del pagamento delle imposte per lo svolgimento dell’attività su suolo pubblico.
Gli ambulanti non vanno disprezzati. Acquistare da un ambulante il più delle volte fa risparmiare, rispetto ad un acquisto al centro commerciale.
Il commercio ambulante è parte attiva della nostra economia. Quanti santangiolini hanno conosciuto il benessere grazie al faticoso lavoro di ambulante? Davvero tanti. Hanno creato la base finanziaria per ampliarsi e crescere anche in settori diversi. E per tanti santangiolini l’inizio è stato itinerante per poi permettere lo svolgimento della medesima attività in un negozio, al caldo, con orari più umani. È sinonimo di fatica che appaga, perché dopo la fatica arriva la soddisfazione del guadagno (il giusto guadagno, inteso come remunerazione sia del capitale investito sia del lavoro fisico e intellettuale svolto). E se l’ambulante ha guadagnato è felice e contento e se non ha “fregato” il cliente può pure andare a dormire sonni tranquilli.
L’ambulante svolge la sua attività nel territorio di nascita, quindi possiamo considerarlo un commercio di vicinato, di prossimità. Cosa che rischia di scomparire con l’avvento così prepotente e dirompente delle compravendite via internet.
E ancora una cosa: che bello, durante le vacanze estive, in cui da giugno a settembre non si andava a scuola, poter andare con mio papà a far finta di lavorare. Il lunedì e il venerdì si andava in verˆsè a Milan, il mercoledì a Ferrara, il martedì, il giovedì e il sabato al mercato di Crema a vendere. Quanto ho imparato! Ho imparato ad osservare. Ho imparato a capire l’onestà di chi fa il mercante. Ho compreso la fatica di famiglia, del perché mio papà alla sera alle nove era già secco sul divano. Ho compreso la fatica di chi fa onestamente il proprio lavoro, come tanti santangiolini. Tanti come me hanno potuto studiare. Ci siamo fatti, proprio perché papà e mamma hanno fatto sacrifici.
E la cosa bella che rimane è ricordare i tanti volti (e ne ricordo parecchi: non li cito per non dimenticare nessuno) di ambulanti di frutta che partendo alla mattina presto da Sant’Angelo (alla Costa quanti frütarö!) andavano a vendere i propri prodotti nel lodigiano, nel pavese, nel milanese, nel cremasco e via elencando. Una Sant’Angelo non tanto antica (andiamo indietro di 20/30 anni), ma che non c’è più. Ne vive il ricordo e in ognuno di noi l’anima del commerciante che è stato in famiglia.
Nel commercio ci sono e ci saranno sempre i valori. E vi è quello che mi sta più a cuore e che esce chiaramente da questo mio scritto nel quale – spero! - parecchi si possano ritrovare: il senso di fare comunità.



IL PONTE - foglio d'informazione locale di Sant'Angelo Lodigiano