È arrivato il momento di tornare in aula, che neppure volevamo ci cogliesse impreparati. Tra i banchi, che ci si è trovati a incasellare in aree ben delimitate da nastro adesivo, alla giusta distanza delle norme anti-Covid. E a parte la parentesi di un Esame di Stato in presenza, or si ritorna in classe, per tutti: è settembre e la scuola deve ripartire.
È un imperativo categorico, la notizia attesa già all’indomani del Ferragosto su tutti i giornali, mentre nell’estate appena trascorsa meno si è parlato di contagi; era il momento del turismo e adesso invece è la scuola che riparte e... Caro diario, il momento è arrivato.
Imprescindibile il fatto che la scuola, quella vera, si faccia in presenza e benché ai tempi della distanza qualcuno si fosse defilato (ma viepiù si faceva largo la ventilata notizia di una “offerta promozionale” all’anno successivo) in qualche modo la scuola non si era mai interrotta, a meno che lo slogan “la scuola non si ferma” non fosse, appunto, un’altra trovata pubblicitaria.
Sicché, un tantino si fa strada ora il sospetto che anche questa ripartenza, a cui forse così preparati non siamo, prenda forma più che altro come una questione di principio, procrastinata troppo a lungo nella parimenti consapevolezza di come prima sarebbe stato impossibile fare il contrario.
Rimane da chiedersi se quel che è possibile fare adesso sia quanto di più proficuo per l’immagine dell’istituzione-scuola o tanto di più rischioso per la sua cospicua popolazione: assieme alla paventata recrudescenza di un virus mai scomparso infatti, raffreddori e influenze sono dietro l’angolo.
“In sicurezza” è quanto perciò di fondamentale occorre, con buona dose di coraggio e “missionarietà”, per poter riprendere i contatti che furono interrotti all’inizio di quel tempo sospeso in cui si fece largo quell’idea che forse, non ci saremmo più rivisti tanto a breve. Nel mentre di quell’assenza, ove una parte di quel tempo è stato necessariamente speso a parlare di quel che si sarebbe voluto fare, egualmente pare giungere così per la scuola il momento di realizzare il tanto auspicato cambiamento, che neppure avremmo voluto che fosse una costrizione dei tempi.
Eppur ci siamo, mentre ci chiediamo se fosse stato proprio necessario quel che abbiamo vissuto e che ancor ci ritroviamo a vivere per capire che tra le tante buone pratiche che tutto ciò potrebbe averci insegnato, doveva giungere l’attuale contingenza per farcele attuare: la presenza di igienizzanti nei bagni (basti solo il sapone ch’era un miraggio per i servizi di alcuni istituti); il permanere degli studenti in aula ai cambi dell’ora (dove gli stessi invece si riversavano nei corridoi, ammassati in coda ai distributori delle merende, più quotati gli istituti che ne avessero di più); non lasciare il tanto osteggiato carico di libri a corredo del sapere, stipato sotto i banchi o nell’armadio di classe; non viaggiare sugli autobus come su carri bestiame. E ancor ci si chiede perché in un tempo in cui i posti assegnati vengono circoscritti “a pavimento” in talune aule, in altre compaiano dotazioni di sedie monoposto con rotelle e ribaltina, che altro non rientrano se non in un’esigenza di rinnovo degli arredi, che si integra ai tempi che stanno cambiando ottemperando a esigenze di distanziamento, ma con uno sguardo al futuro (in cui forse, sarà possibile adattarli a una rinnovata didattica); si spera non certo per continuare a mantenere le cosiddette “classi-pollaio” di tempi non sospetti.
Altra questione infatti, è quella del sovraffollamento nelle aule, per cui da tempo era chiaro che in classi di ventisette o trenta persone, insiste da sempre il filosofo Umberto Galimberti, la scuola magari istruisce, ma difficilmente può educare.
Uno snodo cruciale che da tempo andava risolto, ove la scuola che insegue la performance come un’azienda che produce ha deviato l’obiettivo, imponendo giocoforza quest’anno un rientro istituzionale di quell’Educazione Civica che probabilmente sempre avrebbe dovuto fare da sfondo alle materie (“le discipline disciplinano” – suggeriva il pedagogista Raffaele Mantegazza) ma così non si è saputo fare.
Lo dimostra quella parte di giovani che pure ha subito il confinamento, ma continua ancora ad assieparsi alla prima occasione. Come fu d’altro canto anche per alcuni adulti quella domenica d’inizio marzo che affollarono parchi, treni o piste da sci senza coscienza della situazione: potrebbe esserlo tuttora?
Intanto la rivoluzione delle mascherine è giunta a cavallo degli ingressi in aula, non intravedendo ancora nelle condizioni di possibilità di un gesto che non vuol essere imposto (indossare la mascherina, appunto) un atto di responsabilità nei confronti dell’altro, consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni a rendere libera e possibile la vita di tutti, non solo individuale.
Poi però il sistema potrà operare il cambiamento in atto non solo coll’eroismo e la buona volontà delle forze in campo, ma con famiglie, sanità e trasporti a reggergli il passo.