Rintracciate notizie sui reperti del museo archeologico allestito da don Nicola De Martino nel Castello Bolognini
La scoperta delle schede di catalogo dei reperti nel sito internet ICCD. L’accesso libero alle informazioni sui materiali permetterà di approfondire lo studio sulla più antica storia del nostro borgo e di lavorare per ottenere il rientro dei reperti in città!

di Anna Maria Rizzi*


La notizia è semplice: dopo molti tentativi infruttuosi, ho trovato documenti sui reperti archeologici di don Nicola De Martino. Invitata da “Il Ponte” a pubblicare il racconto della mia piccola avventura, ho ritenuto più utile fare un passo avanti e condividere alcune considerazioni scaturite dalla lettura dei documenti ritrovati.
L’accesso a fonti primarie è essenziale per produrre una ricerca autorevole su basi scientifiche. Non succede sempre così consultando libri di storia locale; così, gli studi non evolvono mai veramente e spesso si ripropongono notizie già note, una sorta di azione conservativa dell’informazione, utile, ma sterile.
Perciò ho deciso di rendere pubblica la notizia della mia piccola scoperta informatica: i dati sugli oggetti del vecchio museo archeologico di don Nicola De Martino (anni ’50 del secolo scorso) sono liberamente consultabili da chiunque, anche dai non addetti ai lavori, sul sito dell’ICCD, l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, allestito dal Ministero dei beni culturali, che a breve sarà trasferito in un nuovo portale.
L’archeologia studia le tracce dell’umanità ed io sono per un’archeologia pubblica, dove l’umanità possa accedere alle informazioni e contribuire con le proprie conoscenze, a volte utili anche se non specialistiche, all’obiettivo di ricostruire, conservare e valorizzare la conoscenza del proprio passato. Ritengo che questa sia una delle basi per creare il sostrato culturale adatto allo sviluppo della conoscenza e a un’economia dei beni culturali che produca reddito per chi ci lavora, che attiri investimenti, che non rimanga semplicemente un cimelio per pochi adepti, a volte gelosi del proprio lavoro.
Partiamo dall’antefatto: la “sparizione” dei reperti, il fatto che, in seguito al furto di arredi e suppellettili degli anni ’90 del Novecento al Castello Bolognini, la Soprintendenza prelevò dal castello i reperti archeologici più delicati per metterli in sicurezza nei propri depositi.
Da allora non si avevano più notizie e trovare informazioni, come racconto su lupolento.it, non è stato facile né immediato. Ora, ritrovate notizie preziose su 55 dei reperti di don Nicola, ovvero la versione digitale delle schede di catalogo e le foto dei reperti, in bianco e nero, ma di buona qualità, posso riprendere lo studio sull’archeologia lodigiana, espansione della mia tesi di laurea.
L’obiettivo da raggiungere nel tempo è cercare di tracciare una storia delle origini del nostro borgo che vada oltre la dicitura “il paese ha origini romane”, come spesso è liquidata la nostra storia antica. Ricostruire l’antichità è un’azione complessa, anche per carenza di fonti, ma non per questo dobbiamo rinunciare a delineare ipotesi, possibili connessioni, mappe mentali utili a inserire la nostra città nella grande storia accaduta non lontano da qui.

Prime osservazioni evidenti

Per poter “far parlare” i reperti, sarebbe importante averne accesso diretto e un contatto con chi per primo li ha studiati, ma in attesa di questo, schede di catalogo e foto alla mano, è possibile fare già alcune considerazioni interessanti.
Primo dato evidente è la loro diversa provenienza nell’ambito del territorio comunale di Sant’Angelo: dal quartiere Lazzaretto e da Bargano. Per sedici reperti sporadici (vale a dire ritrovati casualmente) l’informazione non è indicata, oppure è andata persa nel corso del tempo. Danno irreparabile: questi materiali rischiano di rimanere muti per sempre o riuscire a trasmettere solo informazioni di carattere stilistico o chimico-fisico.
Informazioni utili potrebbero venire dal lavoro d’archivio: il personaggio eminente, il prete, il medico, erano riferimento anche culturale della gente di paese e in passato, chi trovava qualche oggetto insolito nella terra, era indirizzato a consegnarlo a essi, che possono averne annotato i fatti. A volte questo non accadeva con gli oggetti di metallo.
Nell’Ottocento, epoca dei primi ritrovamenti archeologici nel Lodigiano, chi trovava materiale archeologico di metallo spesso lo rivendeva a qualche rigattiere o a qualche collezionista per ricavare qualche soldo. A quell’epoca, a giudicare dalle notizie sulla stampa locale, deve esserci stato un discreto mercato di materiale archeologico metallico, sia verso rigattieri che hanno riciclato la materia prima, sia tramite antiquari di professione. Questa attività, svolta anche dalle classi sociali più in vista (possedere oggetti storici era un must, sia per collezionismo che per motivi d’istruzione), ha prodotto irreparabili danni al patrimonio archeologico lodigiano, smembrato contesti archeologici e generato speranze di arricchimento da parte di chi, lavorando la terra, facilmente poteva venire a contatto con questi oggetti. In pratica ci ha privato della possibilità di ricostruire la parte più antica della nostra storia.
E proprio oggetti metallici sembrano apparire in una foto storica scattata ai reperti di don Nicola, riportata a pag. 27 del libro di Giacomo C. Bascapè su Sant’Angelo. Siamo nel cortile del castello e su un tavolo in primo piano appaiono i reperti raccolti dal sacerdote; tra il vasellame, al centro si distinguono nettamente una lama di spada, una punta di lancia e forse un altro oggetto che spunta a destra di queste: oggetti non presenti tra le schede digitalizzate del Catalogo ICCD.


Vasi in terracotta e reperti metallici trovati nello scavo in sponda destra del
fiume Lambro Meridionale ad est di Sant’Angelo Lodigiano, nel maggio 1932.

Questo fa supporre che i reperti in catalogo siano solo una parte di quelli raccolti da don Nicola: chi li ha studiati tempo fa, si occupava di ceramica d’epoca romana, ed è possibile che abbia catalogato solo gli oggetti d’interesse per il proprio lavoro.
Tra le schede di catalogo ritrovate, sono presenti sei anfore: sono ancora in castello, credo tutte, sparse in diversi locali. Sono tutte state donate da un privato (verosimilmente, alla famiglia Bolognini o al museo di don Nicola), coprono un arco temporale di quattro secoli, dal II a.C. al II d.C., e provengono tutte dagli scavi di Ostia. Sarebbe interessante scoprirne l’antico proprietario e la storia che le ha portate nel nostro castello.
Leggendo le schede dei reperti provenienti dal quartiere Lazzaretto, 17 in tutto, e dei 16 oggetti da Bargano, noto che la bibliografia citata per i confronti (l’archeologia ricostruisce per confronti, dove possibile) fa riferimento a oggetti ritrovati in diversi luoghi d’Italia e oltre: Bologna, Angera, Bergamo, Locarno, Macerata, Luni, Alba. Ho trovato singolare scoprire che un orlo di vaso da Bargano ha un confronto in un vaso analogo proveniente dalla necropoli romana di Isasco a Varigotti, in Liguria, luogo delle mie vacanze e di molti bagni di mare.
Tra i 55 reperti, diversi sono quasi intatti, ma molti sono frammenti: nel restauro che potrebbe precedere un’esposizione, alcuni di essi potrebbero forse risultare pertinenti a un’unica forma ceramica. Poter vedere dal vero i frammenti aiuterebbe a capire.
La cronologia dei reperti, tranne un paio di casi, copre un arco temporale dal II secolo a.C. al II d.C.; diversi frammenti assomigliano moltissimo ai frammenti di vasellame identificati come ceramica da mensa e conservati al Museo Laus Pompeia, luogo con cui appare logico mettere in relazione l’archeologia e la storia di Sant’Angelo. Tuttavia, diverse forme praticamente intatte potrebbero far pensare a un altro uso. Se non ricordo male, in un articolo che devo recuperare tra i materiali della tesi, riguardo ai ritrovamenti in occasione della costruzione del ponte sul Lambro (potrebbe forse essere quello sulla circonvallazione di Sant’Angelo) si parlava di tegoloni, o forse sepolture, che proseguivano nel letto del fiume.
La presenza di Bargano come località che ha restituito reperti è interessante: la frazione si trova tra l’antico alveo del Sillaro e il Lambro. Sapere dei reperti lì trovati, rende più consistenti alcune ipotesi pensate durante lo studio già compiuto.
Nelle schede digitalizzate dall’ICCD, non si fa riferimento ad alcun dato di scavo, poiché Don Nicola deve aver compiuto un’azione di salvataggio, d’emergenza, dei reperti: la cosa oggi non sarebbe tollerata, ma considerate l’epoca e le circostanze, il suo intervento ci ha permesso oggi di avere qualcosa del nostro passato remoto.

Pensare in grande e lontano

L’archeologia trae vantaggio dalla multidisciplinarità: più teste specializzate in diverse materie possono dare un apporto a volte illuminante.
Per tracciare la storia più antica del territorio di Sant’Angelo potrebbero essere utili studi sulla linguistica, in prosecuzione di quelli già compiuti nella prima metà del Novecento e tramandati in paese.
Anche studi geologici e pedologici potrebbero dare un contributo. Notizie trovate in occasione del mio citato studio, consentono ipotesi, tutte da verificare, sulla natura della deviazione del Lambro meridionale, il cui corso piega a novanta gradi all’altezza di Villanterio, sfidando la direzione naturale di pendenza della pianura per giungere a lambire il Castello in centro a Sant’Angelo, fino a sfociare poco più in là nel Lambro propriamente detto.
Soprattutto potrebbero essere utili le ricerche d’archivio: tra le carte di Don Nicola, per scoprire se ci ha lasciato appunti, relazioni o lettere sul suo lavoro di Conservatore affidatogli dalla Deputazione storico artistica di Lodi, tra le carte di questa e quelle dell’archivio Morando Bolognini, o di chi può essere venuto in contatto con eminenti personaggi del paese.
Insomma, c’è ancora tanto da scavare, tra le carte. Ma perché farlo?
I reperti “ritrovati” di Sant’Angelo potrebbero essere un punto di partenza per un progetto culturale di ampio respiro; molti in paese auspicano da sempre il loro ritorno a Sant’Angelo e, oggi, le barriere che ostacolavano l’accesso efficace alle procedure istituzionali per ottenerli sembrano più flebili.
L’occasione di uno studio articolato sui reperti, il fatto di restaurarli per una mostra temporanea, potrebbe essere il primo passo verso un rientro stabile in paese dei materiali archeologici di proprietà statale trovati a Sant’Angelo. Per il Museo Laus Pompeia una strada analoga è stata imboccata e battuta caparbiamente dagli amministratori locali nell’arco di diversi anni.
Una collaborazione tra gli stakeholders (i portatori d’interesse, pubblici o privati, verso un obiettivo comune) sarebbe auspicabile per dare valore al progetto e per catalizzare l’interesse della gente verso l’archeologia nel Lodigiano, un’azione necessaria per promuovere quello “scavo tra le carte”, quelle azioni di studio, valorizzazione e divulgazione in grado di incidere sulla cultura locale.
L’attesa fine della pandemia, con i denari che tutti stiamo aspettando per la rinascita economica, potrebbe essere un momento favorevole per ottenere ciò che serve. Confidando sul fatto che chi può partecipare ai bandi sarà in grado di pensare in grande e lontano, di proporre un progetto di valore che generi risultati significativi, che produca lavoro, anche per i professionisti della cultura, per riaffermare che con la cultura “si può mangiare”. Sembra un sogno, ma potrebbe davvero innescare una rinascita culturale coinvolgente per i cittadini, in grado di produrre risultati permanenti e di restituire l’identità più antica alla nostra città.

Leggi anche “Archeologi che scavano tra le carte”, il racconto del mio ritrovamento informatico su: https://www.lupolento.it/notizie/

*Anna Maria Rizzi, santangiolina, è professionista per i Beni Culturali e operatrice per l’archeologia.



IL PONTE - foglio d'informazione locale di Sant'Angelo Lodigiano


Don Nicola De Martino, nel 1930, sulla terrazza dell’Oratorio SanLuigi, dove educava i giovani alla bellezza delle arti, interessandoli agli scavi archeologici nei dintorni del paese, catalogando
gli oggetti e formando in un locale la prima raccolta dei reperti, che più tardi collocherà
nel Castello Bolognini.



Sopra e sotto, frammenti di “pelvis” degli
Acilii, rinvenuti in una fornace di Sant’Angelo Lodigiano (Lodi Museo Civico).