Ada Negri e “la mole potente della Rocca di Regina Visconti della Scala”
Orgoglio santangiolino

di Emanuele Maestri

Durante la prima ondata pandemica è emerso un sentimento anti-lombardo, uno spirito di rivalsa («ben gli sta!») verso la regione più popolosa e benestante d’Italia: quella Lombardia talmente ricca di energie che nell’occasione, obiettivamente, qualche cedimento ha avuto, subito superato con pronta reattività. E non poteva essere altrimenti.
La nostra terra lombarda…così vitale, dinamica, scattante, tenace. La nostra terra lombarda che non sarebbe tale se non ci fosse stata la capacità di accettare il rischio economico di tanti imprenditori e la voglia di riscatto di tanti meridionali che abbandonarono il nativo sud per cercarvi fortuna, innervandola di una pluralità di sentimenti. Pluralità che è stata ed è ricchezza. La Lombardia è talmente carica di energie provenienti dal suo interno e dal resto d’Italia, è talmente plurale che sembra davvero strano, in mezzo a tale varietà, notare il suo forte senso d’identità, a sua volta diffuso, per cui un lombardo di Sondrio è tanto diverso da uno di Lodi, uno di Pavia da uno di Varese, un comasco da un milanese, un brianzolo da un mantovano, un codognino da un santangiolino, un santangiolino da un villanterese o da un invernino o da un monteleonese. Non solo: un santangiolino d’la Ranera da vön d’la cuntradela; vön d’la cuntradela da vön de busanmartén; vön de busanmartén da vön de busanroche. Differenze che il tempo ha sfumato, ma che ancora vivono in noi.
È bello lo spirito di appartenenza di noi santangiolini, in quanto lombardi. Appartenenza che si vede e respira. Appartenenza che vive in un popolo laborioso, che va in chiesa; un popolo in cui la cultura cattolica, con i suoi santi, i suoi papi, i suoi preti, ha cementato una forte identità che in una società liquida come quella di oggi non è facile trovare.
Senso di appartenenza che tiene grazie a tante persone che cercano, con forza, di resistere al tempo, di ricordare, di tramandare. Senso di appartenenza che si contrappone, magari senza volere, alla prepotenza della cultura della cancellazione. Alla cultura della scolorina che vuole imbianchettare il passato, perché pesante, ingombrante. Sentimento di appartenenza presente in chi fa cultura e in chi fa politica, senza distinzioni di schieramento, perché per un santangiolino, la sua storia, il suo passato, il suo essere non sono né di destra né di sinistra. E questa è un’altra caratteristica tutta nostra, senza dubbio vincente. Caratteristica che tiene lontano il “cancella cultura e storia” perché la storia non si può cancellare, perché immutabile, quale che sia il nostro giudizio odierno; perché giudicare la storia con i parametri di oggi è perdere la possibilità di comprenderla e quindi di non fare più gli stessi errori.
Il santangiolino è un territorio piccolo, una terra che nei libri di storia non sembra esser stata teatro di eventi straordinari (ma questo è fuorviante, perché il nostro passato è ricco di fatti che hanno avuto un ruolo decisivo: dalla famiglia romana degli Acili ai giorni nostri). Una terra, un’antica civiltà contadina e di ambulanti, che è ben rappresentata dalle tante cascine del territorio, dalle ampie distese di campi coltivati.
E che dire del maestoso castello visconteo? Ada Negri, la grande poetessa lodigiana, prima donna a essere ammessa all’Accademia d’Italia, devota della nostra Madre Cabrini, nella primavera del 1935, in visita nel nostro borgo, «tra l’azzurro del cielo, il bel verde dei campi, tra piccole case di mattoni che macchiavano come fiori rossastri le rive del Lambro, ove i due rami gemelli s’incontrano (don Nicola De Martino)», così descrive la bellezza paesaggistica provenendo da Lodi: «Cielo senza nubi, sole senz’ombra, campi nudi dalle zolle lucenti, smosse dagli aratri che preparano la semina del granturco: file di pioppi spogli oppure biondi nel sole, come altissime spighe. Il colore fulvo che ravviva ogni cosa ha per solo contrasto il verde intenso del frumento alto una spanna, e l’azzurro del cielo; brividi d’oro corrono anche nell’azzurro e nel verde. Promessa di primavera: gioia e pace nella mia terra, oggi anch’io vado a salutare la Madre Cabrini nella casa ove nacque in Sant’Angelo Lodigiano. È superbia chiamarla così! Io non sono altro che una figlia della terra di Madre Cabrini… Mi vengono incontro, nel diffuso oro dell’aria, la mole potente della Rocca di Regina Visconti della Scala – mattone lombardo del più bel rosso acceso – e il campanile della cattedrale alto sui tetti del Borgo».
Questa è la descrizione più bella della nostra terra, a distanza di quasi novant’anni, ancora attuale. Fatto non così scontato, visto che nel periodo del boom economico sono stati abbattuti non pochi edifici storici di pregio un po’ ovunque (Codogno, addirittura, anticipò i tempi, poiché, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX rase al suolo il secolare castello).
È importante, doveroso mantenere viva la memoria storica, affinché, prontamente, si possa collegare un monumento ad un determinato periodo storico, a un fatto preciso, a un’idea, a una passione.
Ecco, allora, che il nostro castello visconteo (ultimato nel 1224, posizionato in un punto strategico a cavallo di due fiumi navigabili, in prossimità di quattro strade, a pochi chilometri da Milano, Pavia, Lodi e Piacenza), inizialmente proprietà dei Torriani, successivamente passato ai Visconti, poi ai Conti Attendolo Bolognini e oggi statale, in cui dimorò Regina della Scala, moglie di Barnabò Visconti, la quale fece costruire la maestosa torre mastra, simbolo del borgo, che ebbe l’onore di alloggiare Leonardo da Vinci, per studiare le acque del Lambro; che nel 1525, venne assediato dalle truppe spagnole, nella battaglia di Sant’Angelo, fatto d’arme tra i più importanti della nostra terra; che nel 1540, fu centro nevralgico di un borgo fiorente di ben 5.000 persone, in cui si svolgeva un mercato settimanale nella giornata di mercoledì; che nel 1696 fu saccheggiato dai Bavari; che vide, verso la metà del Settecento, il tragico amore tra Rosa Barasa e un Bolognini; che nel periodo della decadenza, nel 1763, ospitò, per volere del Conte Ambrogio, l’avventuriero Giacomo Casanova; che ospitò nel 1796 («ospiti sgraditissimi») le truppe napoleoniche prima della battaglia di Lodi; che fu, nel 1911, teatro di un terribile incendio che durò due giorni; che venne restaurato subito dopo e portato alle primitive origini dal Conte Gian Giacomo, in ricordo dei suoi avi: ebbene, il nostro castello visconteo è memoria vivente della storia di Sant’Angelo.
Il castello è lì: maestoso, incantevole, possente. Dalla donazione da parte dell’ultima proprietaria, la Contessa Lydia Morando Bolognini, all’Istituto di Genetica di Roma, è gestito da una Fondazione che ne preserva la struttura e la storicità, ospitando ben tre musei. Il castello è il nostro vanto.
Il nostro patrimonio storico è grande, però ad esso ci siamo abituati: lo consideriamo un fatto oggettivo e quindi non lo coltiviamo, non lo tuteliamo, molte volte facciamo fatica a investire in turismo, perché pensiamo che il territorio non attragga turisti. Ci occupiamo di turismo solo raramente. Quando al TG si parla di città d’arte, il pensiero non va mai all’idea che anche il santangiolino possa essere d’interesse turistico. Eppure, nel nostro borgo, come in migliaia di borghi sparsi in tutta Italia, non c’è sito che non conservi la storia, fatta di opere pittoriche, sculture, chiese, campanili, castelli, musei, edifici, tutti segni tangibili di una civiltà, mai ferma, eterna. Ciò che dovrebbe essere naturale, però, viene spesso ignorato, trascurato.
La storia del nostro maniero e dei fatti storici a esso riconducibili dovrebbero essere studiati nelle scuole del santangiolino. Oggi, se si dovesse chiedere al santangiolino medio una breve sintesi della sua storia, si rischierebbero silenzi assordanti e strafalcioni clamorosi. E questo non è bene. Perché una comunità vera si nutre di un patrimonio condiviso (e questo c’è) che deve essere conosciuto o conoscibile, per viverlo concretamente, per tramandarlo.
Ci sono piccole realtà che sono orgogliose di un cascinotto, di una piccola torre medioevale. Di strutture che vivono, ospitano eventi.
L’indifferenza storica è un rischio, ancor più grave dell’ignoranza, perché l’ignoranza si può addirittura azzerare, ma l’indifferenza no, perché è mancanza di volontà di conoscere. Perché «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza (Antonio Gramsci)».
E se c’è mancanza di volontà, che è indifferenza, è opportuno e doveroso che si inoculi la medicina che dia reattività, spirito, per conoscere, sapere, trasmettere alle generazioni future, affinché in una giornata di primavera, provenendo da Lodi, senza nubi, con il cielo azzurro, con i campi appena arati che preparano la semina del granturco, con file di pioppi biondi nel sole, come altissime spighe, con il colore oro che ravviva e che contrasta con il verde intenso del frumento appena nato, in questa atmosfera di gioia e pace che la nostra terra sa dare, la futura Ada Negri, giungendo da Lodi, possa meravigliarsi vedendo la bellezza da cartolina di Sant’Angelo con il campanile della basilica che svetta sui tetti e la maestosa torre mastra a difesa del borgo; possa visitare il bellissimo castello visconteo, passeggiare nel giardino, scendendo dalla scala nobile; possa fare una bella passeggiata in riva al Lambro lucente per vedere e respirare la storia di Sant’Angelo.
La nostra Sant’Angelo!

IL PONTE - foglio d'informazione locale di Sant'Angelo Lodigiano