Orgoglio santangiolino
di Emanuele Maestri
Andare al cimitero, durante l’autunno è una stagione meravigliosa, un arcobaleno di alberi rossi e gialli, che esplode con una fiammata che accarezza occhi e cuore, che ci accompagna per tutto ottobre e inizio novembre: le giornate si accorciano, il buio avanza, la nebbia cala e si fa sentire nelle ossa, si apparecchiano le tavole con tipiche pietanze autunnali (polenta, cotechino, trippa, insieme ai dolci tipici come i michen dei morti). Ogni stagione ha la sua bellezza, i suoi eventi: l’autunno, vigilia delle festività natalizie, ha la festa dei santi e quella dei morti, feste tradizionali che si perpetuano nel tempo, in cui la manifestazione esteriore magari cambia, ma non il significato e il comune sentire. È la stagione in cui la speranza dà senso alla vita che si fa reale nel vedere milioni di persone che si recano a commemorare i propri cari al camposanto; nelle migliaia di persone che pregano e chiedono l’intercessione dei santi; nella tradizionale utàva dei morti con la festa della luce (lüminasion); in tutti i nonni, instancabili, che non smettono di tramandare ai propri nipoti le tradizioni santangioline e italiane, ben radicate nella nostra cultura.
Andare al cimitero, durante l’anno e a maggior ragione nei giorni della commemorazione dei defunti e nell’ottava, non è un inutile rituale, perché il perpetrarsi dei gesti mantiene in vita le civiltà. Il rispetto dei defunti è fondamentale: lo è da sempre, sin dalla preistoria. Il ricordare chi ci ha dato la vita, ci ha insegnato a camminare, ci ha educato a diventare uomini e donne capaci di discernere il bene dal male, ci ha formato ad affrontare le delusioni e a gioire per le cose belle della vita, è rispetto di noi stessi.
Il camposanto è il luogo della storia per eccellenza. Lo storico Angelo Montenegro al riguardo scrisse: «Quando si parla di storia locale a Sant’Angelo la mente corre subito al Castello visconteo e alle vicende storiche di cui è stato, nei secoli, imponente e muto testimone: guerre, assedi, invasioni (…) Quando i vincoli feudali sono stati gradualmente spezzati e il paese ha cominciato ad assumere una sua propria fisionomia (…) sembra quasi che la storia si sia fermata a giudicare dalle scarsissime conoscenze che abbiamo su Sant’Angelo dell’Ottocento e del Novecento (…). Si potrebbe cominciare a svolgere una specie di ricognizione, anche solo sommaria, delle istituzioni, degli uomini e dei luoghi che hanno in qualche modo segnato lo sviluppo di Sant’Angelo negli ultimi centocinquant’anni. Prendiamo ad esempio quello che è il luogo della memoria per eccellenza: il cimitero (Foglio di Storia Locale, anno VIII nr. 51, ott/nov. 1992)». L’attuale, che sorge dove un tempo esisteva il convento dei cappuccini, ha 145 anni (venne benedetto il 1 giugno 1876 dal vescovo di Lodi, mons. Domenico Gelmini, alla presenza del sindaco Antonio Bassi e del prevosto monsignor Bassano Dedè) e sostituì quello precedente, ubicato nell’allora via Sant’Antonio (oggi Mazzini), tra le vie Biancardi e Mascagni, antistante all’attuale pizzeria Veliero (una cassetta delle offerte e un pilastro dell’ingresso sono ancora ben visibili all’imbocco di via Biancardi: non sarebbe sbagliato apporvi una targa, affinché chi ci passa accanto possa sapere e sapendo ricordare). A contare, però, non sono solo le mura, perché quello che più interessa è la storia del luogo e delle persone che vi sono sepolte, la storia che ci “raccontano” le lapidi funerarie, storia personale e comunitaria, che ci riguarda, ci è vicina, ci coinvolge.
Cerco di andare con una certa periodicità al murtori a far visita ai me pori morti, con un veloce saluto che diventa preghiera in segno di rispetto per chi ha condiviso con me un tratto di vita. Quando ci vado, faccio sempre lo stesso giro (sono abitudinario), ricostruisco la mia storia personale: fermandomi davanti a una lapide non posso non ricordare (nella maggioranza dei casi positivamente) tratti caratteriali, specificità comportamentali, fatti vissuti della persona che vi riposa. Ricordi personali che si sommano per ogni lapide davanti alla quale mi soffermo.
Quando ci vado ho l’opportunità di ripassare un po’ di storia santangiolina e domenica 21 novembre l’ho fatto con mio figlio Giovanni: ho cercato di trasmettergliela, di fargliela arrivare, proprio a lui che è un po’ allergico ai libri, ma ha una grande capacità di ascoltare e apprendere direttamente “sul campo”.
«Giovanni sei pronto?». «Sì papà sono pronto, dammi il cellulare così faccio un po’ di foto a quello che mi attira. Papà, papà… guarda qui all’ingresso: a destra e a sinistra ci sono due targhe marmoree del Comune riportanti i nominativi dei santangiolini Cavalieri di Vittorio Veneto!».
«Ecco, Giovanni, ora ti spiego: a Vittorio Veneto, sul fiume Piave, ci fu un’importante battaglia, durante la Prima guerra mondiale (fu l’ultima guerra d’indipendenza italiana). Fu la battaglia finale della guerra, vinta dall’Italia; vi morirono tante persone, militari e civili, e vi furono tantissimi mutilati, anche molti bambini come te, ma grazie al loro sacrificio, dopo secoli, l’Italia ritornò libera e unita. Se oggi siamo uomini liberi lo dobbiamo anche a loro».
«Dai, dai... papà, muoviti: guarda qui che strano monumento. Mi spieghi cosa significa?».
«Allora Giovanni, non è facile da spiegare, però, dai, ci provo: questo monumento vuole essere una preghiera corale della comunità santangiolina per tutti i bambini che non sono mai nati, vuoi per un motivo, vuoi per un altro... quando sarai più grande capirai».
«Guarda... guarda papà: lì c’è un sarcofago. C’è scritto che è la tomba dell’ingegner Vittorio Semenza, morto il 25 febbraio 1890, volontario artigliere nel periodo 1848-49».
«Giovanni... Semenza fu un illustre santangiolino, nato in una famiglia ricca, il quale, poco meno che ventenne, si infervorò per gli ideali garibaldini: per questo, quando Carlo Alberto decise di dichiarare guerra all’Austria, si aggregò come militare artigliere nell’esercito sabaudo con il grado di ufficiale, per partecipare alla prima guerra d’indipendenza, proprio quando un altro illustre santangiolino, Francesco Rozza, insieme a trecento santangiolini, partì per Milano a dar man forte ai milanesi che si sollevarono nelle famose Cinque giornate; in seguito alla sconfitta dei piemontesi e con gli austriaci che ripresero il controllo di Milano, insieme a Rozza e Pandini, dovette rifugiarsi in Svizzera».
«Giovanni colgo l’occasione per dirti anche questo: qui fu sepolto anche il primo sindaco santangiolino, Raimondo Pandini, cui è dedicato l’unico istituto superiore della nostra cittadina, dove ho studiato per cinque anni ragioneria, nonché una via, in dialetto la via dei tirenti. Il Pandini fu personaggio vivace, integerrimo, innamorato della politica e del sogno (poi diventato realtà) dell’unificazione dell’Italia che si completò, appunto, dopo la Prima guerra mondiale; venne sepolto in questa parte del camposanto perché riservata a chi viveva lontano dalla fede cattolica (in vita, seguì, infatti, la sola religione della ragione e nemmeno in punto di morte si convertì; morte che lo colse il 20 marzo del 1889, in una cameretta spoglia, accudito dalla fedelissima Regina Zorzi; per lui fu celebrato un funerale civile). Fu un protagonista della storia santangiolina dell’Ottocento, antesignano di Peppone, quanto monsignor Bassano Dedè lo fu di don Camillo: furono il diavolo e l’acqua santa (quando vedremo la cappella parrocchiale ti spiegherò meglio chi fu don Bassano Dedè). Per Pandini, Giovanni Pedrazzini Sobacchi (uno storico santangiolino) ebbe dolci parole di ricordo («Il suo nome, inciso indelebilmente sul marmo della lapide monumento al municipio, e dato a una via, non sarà dimenticato mai più. Ed a me pare di sentire ancora passare leggera e tremula e carezzevole sulla mia testa di bimbo, la mano diafana del bel vegliardo dall’imponente figura, dalla testa leonina, dagli occhi dolcissimi e sereni di chi non conobbe l’odio, la menzogna, il contatto con le basse cose») che mi convincono, insieme alla certezza delle tante preghiere della religiosissima Regina, che dopo una lunga anticamera in Purgatorio ora sia in cielo insieme a don Bassano e a Pio IX a dibattere di politica».
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