Martedì 28 febbraio, in cesagranda, alle ore 18.00, la comunità parrocchiale ha festeggiato il prevosto emerito monsignor Carlo Ferrari, in occasione del suo settantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale: un traguardo straordinario per un prete, un uomo carismatico, un “imprenditore della carità” dotato di grandi capacità comunicative attraverso l’uso di un linguaggio semplice per contenuti alti, che ha segnato il percorso della chiesa santangiolina per più di trent’anni (ventuno come pastore e tredici come cappellano della casa di riposo). Anni vissuti pienamente, a tutta velocità, senza far notare un minimo cedimento, né fisico né creativo; anni di trasformazione del paese con l’istituzione della parrocchia de Busaroche, l’allontanamento del popolo dalle pratiche tradizionali della fede e un tessuto sociale fortemente stravolto, non solo dal forte flusso immigratorio di persone appartenenti a religioni differenti, ma anche dalle nuove mode.
Monsignore ha educato alla fede generazioni di santangiolini, attraverso un servizio pastorale attento ai giovani (tifoso del Bologna, è sempre stato convinto dell’importanza dello sport oratoriano come «giusta strada per aggregare, perché lo sport non è solo agonismo, ma determina la crescita umana dei giovani ed è giusto che gli oratori lo promuovano»), agli adulti e agli anziani e i forti richiami morali ed etici nelle bellissime, coraggiose, forti omelie predicate senza peli sulla lingua, mettendo sempre al centro la bellezza della fede in Gesù.
Come possiamo dimenticare le analisi sociologiche e l’assoluta difesa dei valori non negoziabili tanto cari a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? E la sua umanità?
Ho tanti ricordi di Monsignore, alcuni meritevoli di condivisione perché, oltre a tratteggiare il suo spirito imprenditoriale (abbellimento e funzionalità dell’oratorio san Luigi, restauro della Basilica con la creazione del museo e l’ampliamento della casa di riposo con annesso centro diurno integrato), mettono in luce la santità di vita, l’attenzione al gregge affidato, la continua ricerca della verità ancorata al Vangelo e la forza delle idee che si fanno azione pastorale, perché don Carlo non è solo il don Carlo della casa di riposo: è stato un importante docente (universitario e di seminario), preside per quindici anni dell’Istituto di sociologia dell’Arcidiocesi di Milano, insegnante di economia, diritto e filosofia alle superiori; giornalista e presidente del consiglio d’amministrazione de Il Cittadino che, insieme a don Mario Ferrari, ha traghettato da settimanale a quotidiano.
Riporto alcuni stralci significativi di una mia intervista del 2004 (pubblicata su La Cordata) e di quattro conversazioni registrate nel 2018 alla casa di riposo, che evidenziano la lucidità d’analisi di talune dinamiche sociologiche che già allora iniziavano a creare vivaci discussioni, oggi attualissime.
Iniziamo con i santangiolini: «Mi porterò nel cuore sempre gli abitanti di Sant’Angelo, le persone con cui ho lavorato, il carattere dei santangiolini, la sensibilità per le opere che la parrocchia ha promosso, in primo luogo la casa di riposo, il centro diurno integrato e il restauro della Basilica (…) quando chiedevo alla comunità qualcosa, beh, i santangiolini sempre rispondevano positivamente».
Sull’immigrazione: «È una risorsa perché alcuni lavori gli italiani non li fanno più, ma è anche un problema perché non è facile realizzare un’integrazione socioculturale, pare quasi irrealizzabile, ma del resto è come il ricorso all’intelligenza umana, che non è facile gestire correttamente con il rischio di essere un delinquente, oppure un gentiluomo. Sì all’integrazione verso chi si fa integrare (…) credo che come proposto dal mio compagno di studi a Roma, il cardinale di Bologna, Giacomo Biffi, vada favorita l’immigrazione di popoli cristiani perché aiuterebbe l’integrazione socio culturale».
Sull’aborto, sul diritto alla vita del nascituro (da non dimenticare la proficua collaborazione con il servo di Dio Giancarlo Bertolotti) e sul riconoscimento delle coppie omosessuali: «Non condivido alcune prese di posizione come il sì all’aborto, il sì alle unioni fra omosessuali; io non ce l’ho con i gay come prete, nulla da obiettare sulla scelta sessuale di una persona, ma riconoscere civilmente le coppie omosessuali sarebbe contro natura, potrebbe portare ad una società senza figli, dove il matrimonio non è più fra uomo e donna, atto alla procreazione». Posizioni espresse nel rispetto della laicità dello Stato come nel caso della legge sulla fecondazione assistita: «Bisogna dividere l’analisi in due: sotto l’aspetto della fede la legge poteva essere migliore, si poteva fare di più, però bisogna anche considerare che lo Stato non può fare delle leggi che siano uguali alla volontà della Chiesa. Sotto l’aspetto della ragione la legge non è male, l’impianto civile è positivo. La tutela dell’embrione come soggetto, come realtà proiettata verso la soggettività umana è un buon risultato».
Sulla civiltà occidentale: «La civiltà occidentale è fondata sul diritto alla libertà, conquistato in millenni di storia: diritto che ci porta a esercitare la libertà individuale che potrebbe essere, da un lato, un valore, dall’altro, un controvalore. Dipende da come si inquadra la situazione. È una grande conquista, ci permette di sbagliare e nel contempo di ammettere di aver sbagliato. Senza la libertà saremmo nulla. L’insegnamento di Gesù è un insegnamento di libertà: non c’è un solo passo del Vangelo in cui Gesù impone, ma traccia il cammino, concedendo all’uomo la libertà di scegliere di andare in paradiso oppure all’inferno. C’è un motivo per cui la libertà si è sviluppata laddove il cristianesimo ha trovato una diffusione di massa!».
Sulla dote oratoria riconosciutagli da tutti: «Cerco di comunicare pensieri difficili usando termini semplici, perché l’essenza è farsi capire. Gesù, quando predicava, si faceva capire: ad esempio le parabole sono esempi che permettevano ai discepoli di capire concetti difficili. Ecco, dunque, cerco di fare così: prima di parlare a qualcuno cerco di capire chi ho di fronte. Non posso fare il professore con i ragazzi durante la cresima... Bene ha fatto Papa Francesco a consigliare ai preti di predicare massimo dieci minuti, in modo chiaro, diretto per farsi capire. Ecco, io cerco da sempre di fare così, solo sforo un pochino i dieci minuti».
Monsignore, dal 2006 al 2018, ha amministrato la cresima in diverse parrocchie del territorio, e oltre al rito di conferimento della S. Cresima, i ragazzi restavano colpiti dalle parole pronunciate durante l’omelia, in particolare dal discorso sui quattro pilastri/progetti di vita che spiegava così: «Primo pilastro è costruirsi un bel carattere, secondo avere una volontà ferma, terzo avere una visione costruttiva della vita grazie ad una mente aperta, quarto avere una fede intrepida». E aggiungeva: «Auguro, quindi, ai ragazzi di affrontare le sfide del futuro con gioia. Tutte le sfide che la vita pone loro innanzi, anche la non sempre facile convivenza con chi proviene da culture diverse, con chi è portatore di un’altra visione della vita lontana dal cristianesimo (quel cristianesimo che è radice della nostra civiltà occidentale e del rispetto della persona umana). Li sprono a darsi da fare, a uscire dal letargo per costruire il futuro con gli altri, anche con chi la pensa diversamente, anche con chi proviene da lontano, per un’integrazione vera nel nostro contesto, che non sarà di certo perfetto ma è il migliore possibile, in cui vige la democrazia, l’uguaglianza uomo-donna, il rispetto della persona, la libertà religiosa. E poi dico loro di avere il coraggio di essere rispettosi del proprio corpo, nella scoperta del lato fisico della crescita, per non buttarsi via, per governare la propria istintività».
I ricordi di don Carlo sono tanti: non basterebbe un numero completo de “Il Ponte” per scriverli tutti.
Posso dire che ha segnato la mia crescita umana: mi ha comunicato, accompagnato alla cresima, sposato, battezzato i figli, revisionato non pochi lavori di ricerca, sgridato per alcune prese di posizione non proprio appropriate su temi d’attualità e tanto altro ancora…
Così per me; così per almeno due generazioni di santangiolini.
Che dire d’altro?
Che questi anni sono volati, ma che la gioia di aver camminato insieme non volerà mai.
Grazie monsignore!