«Giovanni, Francesca dovete sapere che il nucleo storico di Sant’Angelo è composto da quattro borghi: Santa Maria, San Martino, San Rocco e la Piazza. Borghi in cui la vita era scandita da ritmi ben definiti, in cui il lavoro si trasmetteva di padre in figlio; lavori umili, ma dignitosi, che permettevano ai santangiolini di avere in tavola qualcosa da mettere sotti i denti, talché se uno era figlio di pescadù, beh, non poteva che fare anche lui il pescadù, se frütarö el frütarö e via elencando. Le alternative erano ben poche; la possibilità di emanciparsi quasi nulla. Altri tempi, ma non così lontani come la narrazione potrebbe far apparire».
«Papà, tu parli sempre di Sant’Angelo, al punto tale che mi sono innamorato di questo paese che ha un qualcosa di speciale che ancora devo scoprire del tutto. Sono contento che in questo nuovo viaggio ci sia anche mia sorella Francesca. Franci, ti piace Sant’Angelo?».
Mercato di Crema, anni Cinquanta: sono riconoscibili
Domenico Maestri (al centro)
e il figlio Giovanni, alla sua sinistra,
mentre pesa con la “balansa”.
Mercato di Crema,
fine anni Ottanta: è riconoscibile Antonio Maestri.
«Sì Giovanni… voglio conoscere un po’ questo paese di cui papà parla sempre, sino allo sfinimento, ma che, come raccontato da lui, ha un qualcosa di magico, quasi un posto di maghi e fate».
«Non esageriamo Francesca. Sant’Angelo, però, ha una storia millenaria alle spalle e la parentesi medievale ha il suo fascino: ne parleremo un po’ più in là. Riprendiamo da dove abbiamo interrotto… Cioè? Me ricordi pù…».
«Stavi parlando dei borghi che compongono Sant’Angelo e dei lavori che si facevano…».
«Ah ecco! Uno di questi borghi è Santa Maria, luogo in cui la nostra famiglia ha le proprie lontane radici, almeno dal Settecento, precisamente in largo Santa Maria e in via della Costa, zona, quest’ultima, in cui, secondo Giovanni Pedrazzini Sobacchi, oltre a borgo San Martino, vivevano i barasini autentici, i Tupén o terrazzani abitanti alla Costa, i quali chiamavano la zona Burghu Driciu, il più squisitamente popolano, il più fedele custode dell’identità santangiolina. Erano molto poveri (il reddito medio era al di sotto della soglia minima di sopravvivenza), ma si davano da fare per sbarcare il lunario. Proprio qui nacquero certi mestè santangiulèn famosi in tutta la Lombardia. In particolar modo voglio ricordare i filsunè (creatori e venditori di collane di castagne essiccate) i pescadù, gl’urtùnàn e i frütarö.
Da questo borgo iniziamo i nosti quàter pàsi in gìr per Sant’Angel, per scoprire un po’ di storia popolare, fatta di aneddoti, ricordi, curiosità e lo faremo incontrando alcuni santangiolini che sono testimoni diretti e addirittura protagonisti della Sant’Angelo che fu».
«Dai papà, siamo curiosi: da chi partiamo, chi andiamo a trovare?»
«Iniziamo in famiglia, da nonno Antonio, ultimo erede dei Maestri de Busantamaria, scumàgna “i viginon”, de mestè frütarö. Sarete voi a fare le domande al nonno, perché io tante cose le so già».
«Nonno Antonio, siamo contenti, perché vogliamo conoscere un po’ la storia dei Maestri, dei nostri bisnonni… dai raccontaci un po’…».
«Grazie alle ricerche fatte da vostro papà e ai miei ricordi vi posso raccontare che i Maestri ien frütarö da inizio Ottocento: il primo che svolse l’attività di ambulante di frutta e verdura fu Ambrogio (mio bisnonno), nato nel 1848 (esattamente cent’anni prima di me), sposato con Cristina Frigè, figlia di Silvestro, di mestiere, secondo gli stati d’anime, fruttivendolo abitante al civico 320 dell’attuale largo Santa Maria, luogo storico d’la rimesa. Il primo in famiglia a fare il fruttivendolo, quindi, fu un Frigé, Silvestro, il quale passò, poi, l’attività al genero Ambrogio».
«Nonno, io mi ricordo quando ero piccolo piccolo e ti vedevo con il camion al mercato di Guardamiglio e lì vendevi la frutta…».
«È vero, il mercato di Guardamiglio è stato, insieme a quello di Castelnuovo Bocca d’Adda, uno degli ultimi che ho frequentato come venditore ambulante. Pensa che mi ricordo almeno tre generazioni prima di me che facevano il mestiere: me papà Giuanen, mio nonno Domenico e il bisnonno Ambroeus.
Mi ricordo bene di mio nonno: andavo con lui e con mio papà con il camion (un leoncino) a prendere i prodotti nel pavese al mercato degli agricoltori, a Voghera, il mercoledì e molte volte direttamente in campagna. E lì, sia che ci andasse mio nonno con mio papà sia io solo, ci chiamavano tutti Ambroeus, perché il vostro quadrisavolo (Ambrogio appunto), sin dalla seconda metà dell’Ottocento, frequentava quelle zone. Compravamo nel pavese e vendevamo al mercato di Crema e nelle cascine del cremasco, soprattutto a Gattolino, dove tutti mi chiamavano Mìchì, che sarebbe Domenico in dialetto cremasco, perché i vecchi si ricordavano ancora di mio nonno Domenico (appunto Mìchì) che girava nelle cascine a vendere con la bareta».
«Nonno che cos’è la bareta?».
«Francesca, la bareta è il carro trainato dai cavalli. Finita la guerra, hanno comprato un camion che i tedeschi hanno lasciato e che utilizzarono alcuni anni per poi comprarne uno tutto loro. Ho tanti ricordi e anche dei documenti. Vedete, qui in magazzino, ho ancora appesa la licenza di ambulante nr. 246 di mio nonno, rilasciata dal podestà Tonolli durante il fascismo; ho la sua tessera d’idoneità sanitaria per la professione di fruttivendolo ambulante datata 1956 e ho la tessera di riconoscimento del 1960 di mio papà Giovanni per entrare in Versé a Milano a comperare la frutta. E poi ho ancor dei cimeli: du balanse che ho utilizzato almeno sino agli anni Novanta del secolo scorso (le utilizzavo quando andavo a vendere nelle cascine) e un stafil».
«El stafil? Ma cos’è?».
«Giovanni, è una bilancia antica e l’ho avuta in eredita da mio papà Giovanni che a sua volta l’ha avuta da suo papà Domenico che a sua volta l’ha avuta da suo papà Ambrogio: insomma è un cimelio, un ricordo che ci fa tornare indietro nel tempo».
«Ho fatto una brevissima ricerca in internet, papà: el stafil in italiano è conosciuto come la stadera, una bilancia di origine addirittura etrusca, la cui diffusione in Europa è da attribuire ai Romani; il funzionamento si basa sul principio delle leve».
«Nonno, tu l’hai usata? Sai spiegare come funziona? A me, vedendola, pare impensabile che possa misurare il peso».
«Guarda, è più semplice di quello che sembra: ecco, c’è un braccio più lungo su cui c’è una scala graduata, su questa scala scorre un peso detto baciucon; poi c’è un gancio al quale si appende la merce da pesare. Facendo scorrere il peso lungo la scala si raggiunge una posizione di equilibrio nella quale il braccio graduato si porta in posizione orizzontale. Dalla posizione del baciucon sulla scala si legge il peso cercato e quindi effettivo».
«Beh, non proprio semplice, anzi…».
«Il lavoro del frütarö era molto diffuso a Sant’Angelo, soprattutto alla Costa. Ci si svegliava alla mattina alle tre, e alle quattro si sentivano i rumori dei camion in partenza: quelli degli urtùlan che partivano per n’da al mercà in Versè per vendere i prodotti della terra (in particular le rave santangiuline) e quelli degli ambulanti che andavano a fare i mercati: chi nel milanese, chi nel lodigiano, chi nel pavese, chi, come noi, nel cremasco. Ricordo tante famiglia della Costa e de Busantamaria che facevano i fruttivendoli. Oltre a noi c’erano i Mascheroni: Carletu (oggi uno degli ultimi a fa el mestè l’è Tonino, el so fiol, in via del Pelegren) e Turino che passò l’attività ai figli Giancarlo, Vittorio e Mino. Eravamo davvero in tanti: i fratelli Lucini (ricordo benissimo Pierino), i fratelli Tonali (Ceserino, Franco e Gaudenzio de Busanroche), el Mistu in Piasa (prima il papà Lino e poi Mario e sua sorella) e altri ancora.
Il lavoro era duro, fatto di grandi sacrifici perché alla mattina, sia che si andava a comperare all’ortomercato di Milano sia che si andava a vendere, la levataccia era alle quattro. Ad acquistare la frutta già mio papa Giovanni, nei primi anni Sessanta, iniziò ad andare a Milano dove arrivavano prodotti da tutta Italia, anche gli agrumi dal sud, senza abbandonare le campagne dell’Oltrepò pavese e il mercato di Voghera. Poi, io ho esteso il raggio andando a comperare in Piemonte, vicino Alba, soprattutto le pere da far cuocere (la Maderna), ma anche mele, pere da tavola, ciliegie e pesche; in Emilia, nel ferrarese (Cento, Modena, Bondeno); in Trentino e in Alto Adige; nel piacentino (Borgonovo, Ziano) pomodori, meloni, angurie e soprattutto zucche. Invece, a vendere si andava al mercato di Crema e in giro per le cascine del cremasco e di Cadilana».
«Nonno, papà ci dice sempre che noi siamo detti i Viginon… perché?».
«Noi santangiolini abbiamo le scumàgne, che hanno anche altri comuni lodigiani ma non così caratteristiche e plastiche come le nostre che in una sola parola contengono la storia di una famiglia. Noi siamo, come avete detto voi, i Viginon. Mio papà mi diceva che l’origine è legata al fatto che suo nonno Ambrogio andava a Vigevano, al mercato, a comperare i fagioli: da lì l’identificarci con la città di Vigevano. Anche nella famiglia della nonna Bassanina c’erano degli ambulanti, in particolare ricordo la vostra trisnonna Antonia, detta l’Americanina perché sognava di emigrare in America: la sua è una storia di grandissima dignità, perché, dopo una tragedia familiare, per sbarcare il lunario, decise di fare l’ambulante e con la bareta girava nelle cascine del santangiolino a vendere la verdura. E come lei tanti altri santangiolini… gente dedita all’ambulantato, da sempre, caratteristica tutta nostra: l’abbiamo nel DNA. Mia mamma Cristina, invece, veniva da una famiglia di ortolani: sapessi quanti ortolani c’erano in Busantamaria, erano famosissimi sul mercato milanese per la rapa santangiolina, rossa e bianca, piccola, non aspra. Una vera specialità tutta santangiolina».
«Non anticipare, perché il prossimo incontro lo faremo appunto con gl’urtulan e il protagonista sarà Domenico Bianchi detto Giardinon».
P.S: chi volesse segnalare professioni ormai scomparse, curiosità, spunti d’approfondimento scriva a maestri.emanuele@gmail.com
Licenza di ambulante di Domenico Maestri
el stafil
Tessera sanitaria del 1956 di Domenico Maestri
Tessera d’accesso al mercato generale di Milano di Giovanni Maestri