«Giovanni, Francesca, oggi incontreremo un santangiolino verace come pochi altri. Ascolteremo dalle sue parole il racconto di un mondo che non c’è più; ci racconterà di una civiltà contadina che esprimeva un senso di lentezza e di sacralità, in cui lo spirito e l’anima si fondevano per dare equilibrio e pace all’uomo; civiltà in cui il protagonista era il lavoratore della terra, un po’ ribelle un po’ anarchico, che non si omologava e che conosceva davvero e rispettava la natura.
«Il protagonista di questa ciciaràda sarà Domenico Bianchi, il quale vi racconterà una storia (vera) che non vi capiterà di certo di riascoltare nelle aule di scuola né leggere sui libri. Storia che vi permetterà di comprendere che per la terra esiste vero amore e non solo sfruttamento e cementificazione».
«Domenico, allora, dimmi un po’: alla soglia dei 90 anni ti senti sempre uno spirito libro, un po’ ribelle un po’ anarchico, come ti ho conosciuto io, anni fa?».
«Ma certo, sèmper! Sono del 1934: ho 89 primavere e farò 90 anni il 3 aprile del prossimo anno. E non sono cambiato!».
«Bene, cumencième! E lo facciamo partendo dalla to’ scumàgna».
«Son el Giardinòn, el fiöl de Gaetano el Giardinòn e mia mamma si chiamava Giovanna. Lei era originaria della Costa, nata e cresciuta proprio dove ci troviamo ora. Questa l’è la cùrte dei miei nonni materni. Mia nonna era una Maestri, si chiamava Nina: una donna barasina senza se e ma, un punto di riferimento, una certezza per gli uomini di casa. Insomma: la cumandèva le! Qui, alla Costa, sono nato e cresciuto insieme ai miei fratelli Giuseppe e Antonio; tutta la mia vita è qui».
«Ma torniamo alla scumàgna: perché te sèn el Giardinòn?».
«Son el Giardinòn perché la famiglia di mio papà (i Bianchi) abitava nella cascina del Giardinòn. Sì, propri l’urtàja del castèl. Eravamo lì in affitto dai conti Bolognini».
«Domenico, cosa ti ricordi di quando eri un bambino come Giovanni e Francesca?».
«Che ero spensierato: giocavo a la lipa e spachèvi paregi vedri. Mi ricordo che la strada dove c’era Rovida non era asfaltata e che da lì scendeva una rusa che bagnava la nostra urtàia. Ricordo mia zia, la sorella di mio papà, che vendeva i prodotti della terra in piazza, dove si trovava, una volta, Murusén: la purtèva le rave al banche in piasa cun el cavàl. Lei rimaneva lì e il cavallo, da solo, tornava a casa».
«E i Bianchi urtulàn in Versè a Milan?».
«È stato mio papà il primo ad andare in Versé. Noi siamo stati i primi in assoluto ad andare a vendere a Milano, poi ci hanno seguito gli altri. I Bianchi erano tre fratelli: me papà Gaetano, me ziu Michele e me ziu Zén. Loro due avevano timore ad andare a Milano: allora ci andava mio papà perché era un uomo coraggioso, il più coraggioso dei tre: el gh’eva pagüra de gnèn, el ruvèva fina in piasa Funtana.
«Perché i tuoi zii avevano paura?»
«Tra le due guerre la gente aveva fame. Parliamo di anni di miseria; per mangiare le persone erano disposte a fare gli agguati. In modo particolare, ricordo il racconto di mio papà: diceva che era pericoloso, soprattutto, il passaggio nei pressi di Melegnano perché lì avvenivano gli assalti con i bastoni. Davano bastonate al cavallo e a chi portava la merce. Se te stèvi no atènti, i te rubèvun tüte quel che te gh’èvi sü la barèta e te gnèvi a ca’ tüte s/cìnche. Mio papà era un omone e, quando capitava che lo avvicinavano, le dava per primo e riusciva ad arrivare a Milano con tutto il carico».
«Cosa vendevate all’ortomercato di Milano?».
«Melòn, rave, fasö, erbiòn, süchèn… Negli anni buoni, partivo da qui con 25/30 quintali al giorno. Il tempo di arrivare, scaricare al posteggio, ed era già tutto venduto. In famiglia ognuno aveva il suo compito: io ero il venditore, il mio Antonio lavorava la campagna e mio fratello Giuseppe, il secondo, era un commerciante di bestiame».
«Giovanni e Francesca non sanno cosa sono gli erbiòn: puoi spiegarlo e magari aggiungere altre parole dialettali oggi in disuso per indicare prodotti della terra?»
«Ma certo. Gli erbiòn sono i piselli. Poi vi posso far sorridere con le magiustre, cioè le fragole; con i galfiòn, cioè le ciliegie; con i marisàn, cioè le melanzane».
«Che meraviglia il dialetto!».
«Busantamaria, Domenico, era il quartiere degli ortolani. È così?»
«C’erano anche a Busaroche, però la maggior parte erano qui. A Busantamaria gl’urtulòn j’erun dabòn paregi: ricordo Tugnètu Belan (anche lui andava a vendere a Milano), i Sommariva (i Purén), i Cambièi, ’Ngiulén Vitalòn, i Bellani tuoi parenti (i to’ bisnoni detti Furneròn). Loro, ad esempio, andavano a vendere a Lodi: ricordo il tuo bisnonno Giuanèn che ci andava insieme a tua nonna Cristina, invece to’ ziu Cecu el n’deva in campagna. Altri che ricordo ancora sono Basalisca e Gagiàn. Chi coltivava la terra stava economicamente bene: i nostri genitori riuscivano a mandarci a scuola, anche se per il raccolto ci facevano saltare le lezioni e me seri cuntènte; eravamo sempre puliti e vestiti; in tavola c’era sempre qualcosa da mettere sotto i denti. Ma gli altri alla Costa erano poveri, davvero tanto poveri: i bambini erano lasciati allo stato brado, j’erun vunci asè. Mi ricordo mia nonna Nina che ogni tanto dava loro dei pezzi di pane. Mica è come ora: ai tempi c’era la vera miseria. Ringrazio il cielo di non averla mai provata».
La campagna santangiolino-villanterese durante gli anni del Secondo conflitto mondiale: nella
foto a sinistra in primo piano le ceste piene di meloni, sullo sfondo due militari del Regio Esercito
insieme a componenti della famiglia Bellani, detti Furneron (sono riconoscibili le sorelle Cristina
e Maria Bellani con il fratello Francesco, la cugina Celestina con mamma Maria e Maestri Mario);
nella foto a destra Cristina Bellani mostra due meloni appena raccolti.
«La Costa… dove vivevano i tupen... tu li hai visti? Hai dei ricordi»?
«Me ricordi ben dei tupèn, de quei nustràn, quei vira. Tanti j’èrun propri grami. Me ricordi che una volta gh’èra da difendese cun la folcia. E poi ricordo il dialetto che era unico, particolare, molte parole terminavano con la u. Ormai non si parla più».
«È vero! Oggi, purtroppo, possiamo certificare la definitiva scomparsa sia dei tupèn sia del particolare dialetto con cui si esprimevano. Oggi, francamente, è a rischio anche il dialetto santangiolino, ormai fortemente italianizzato. Quando ero bambino (parliamo dei primi anni Ottanta), prima dell’italiano, si imparava il dialetto: a Sant’Angelo l’incontro con la lingua nazionale, cari Francesca e Giovanni, avveniva in prima elementare: in famiglia ci si esprimeva essenzialmente in rigoroso santangiolino».
«Domenico, adesso parliamo delle rape santangioline, bianche e rosse, una vera prelibatezza. Mi ricordo quando andavo con mio papà a Milano e a Crema al mercato: la gente le chiedeva, le aspettava. Ma cosa hanno di così speciale queste rape ormai quasi del tutto scomparse dalle nostre campagne?».
«Erano e sono speciali: le uniche rape dolci».
«Dolci?».
«Sì, erano dolci perché con gli anni abbiamo creato a Sant’Angelo una vera e propria specialità e senza particolari accorgimenti, solo attraverso l’intuito e l’esperienza dei nostri vecchi. Ai tempi, infatti, si rispettavano i cicli della natura. Insomma, ti racconto cosa facevano i miei: loro mandavano la terra verso le Cà Pandine, tra Sant’Angelo e Villanterio; prima piantavano i meloni e subito dopo, passata la stagione estiva, estirpate le piantine, se sumeneva le rave. Queste, per forza, prendevano un po’ del dolce del melone, mitigando così l’amarezza tipica delle rape. La rapa santangiolina nasce così, poi con gli anni abbiamo creato la sumensa. Ne ho vendute a tonnellate. Mi ricordo che le maggiori richieste mi arrivavano dal milanese e dalla brianza. In Versè a Milan i spetèvun le noste rave!».
«Sono quasi scomparse, non siamo stati in grado di creare un disciplinare della rapa santangiolina. Un’occasione persa!».
«Oggi, sono rimasti forse in due a coltivarle. È un vero peccato aver perso questa tradizione, questo prodotto che era davvero unico. Gli agricoltori ci sono ancora, ma non sono più quelli di una volta. I vecchi rispettavano i cicli della natura e sapevano amare la terra, perché dava i frutti che venivano messi sulle tavole e che servivano per sfamarsi. Ma non vedi come abbiamo ridotto la nostra campagna? Fra un po’ saremo sommersi dai capannoni!».
«Caro Domenico, vedo, in tutto il Lodigiano e nel pavese a noi vicino, il proliferare dei capannoni, una cementificazione non pianificata che di certo non serve a noi comuni mortali (anche se ci fanno passare questa idea); vedo tutto questo e penso che più che una rivoluzione verde serva una rivoluzione culturale, in cui la storia dei nostri vecchi e la testimonianza meravigliosa che tu ci hai proposto possano aprire le nostre menti e farci comprendere che così non possiamo andare avanti».
«Dabòn!».
«Grazie Domenico per la tua bellissima testimonianza, grazie davvero».
«Francesca, Giovanni, il mondo va avanti, ma non tutto quello che c’è oggi, e magari ci sarà domani, sarà meglio di quello che c’è stato prima».
«Papà, la prossima ciciàrada con chi sarà?».
«La prossima sarà con Martina, una ragazza che mi ha contattato per raccontare i mestieri, ormai scomparsi, dei suoi bisnonni».
’Ngiulèn Vitalon (Angelo Vitaloni)
durante la semina.
Braccianti in un campo dei Purčn d’la Costa.
La bambina in primo piano č Marieta de Purčn.