«Giovanni, Francesca, oggi incontreremo due ragazzi che mi hanno contattato tramite mail, desiderosi di raccontare la storia del proprio nonno, Dionigio Lunghi detto Nanén di ottantasette primavere, attualmente ospite alla Casa di Riposo Madre Cabrini. I loro nomi sono Martina e Andrea Meazza. Ascolteremo dalle loro voci un racconto singolare che ci farà rimbalzare dal nostro borgo di Santa Maria a quello di San Martino: una storia familiare che, insieme alle testimonianze che fin qui abbiamo raccolto, fa memoria. Memoria di un paese che negli ultimi decenni si è profondamente trasformato, non sempre in meglio, passando da una centralità commerciale a una marginalità globale. Quanti mestieri si praticavano allora e quanti oggi? Questa è una semplice domanda la cui risposta ci permette di misurare l’omologazione in atto a Sant’Angelo, borgo non più in grado di trainare il cambiamento, né tantomeno capace di cogliere nuove opportunità per diventare di nuovo centrale per il Lodigiano e il vicino Pavese».
«Eccoci qua con Martina e Andrea... Allora, ci volete spiegare il perché di questo desiderio di raccontare le storie di famiglia?».!
«La voglia è tanta e lo facciamo per nostro nonno Dionigio, detto el Nanén o el Marinàr, il quale, insieme a nonna Antonia, qui a Sant’Angelo, ci ha cresciuto. Nostro papà è di Valera e lì abitiamo, ma noi ci sentiamo santangiolini, amiamo Sant’Angelo».
«Bene, abbiamo qualcosa in comune: l’amore per Sant’Angelo che per noi è la patria. Noi siamo semplicemente santangiolini, il resto viene dopo. Il raccontare l’identità della nostra gente è importante: è, sì, un viaggio nel passato, ma non fuga dalla contemporaneità; è, sì, un rammentare un mondo che non tornerà più, ma è ancor di più chiave di lettura del presente per progettare il futuro. Le attuali generazioni pensano che gli ultimi trent’anni di iper-modernità siano la nostra storia, ma l’uomo, in realtà, ha alle spalle migliaia di anni legati alla terra e all’evoluzione socio-comunitaria. Voi non siete così: con il vostro racconto siete la voce delle radici santangioline, siete un esempio da imitare».
«Giovanni e Francesca sono incuriositi dalle scumagne del nonno: se per Nanén è ben comprensibile il motivo, un po’ meno lo è per el Marinàr...».
«Marinaio deriva dal fatto che nonno Dionigio espletò il servizio militare in Marina, esperienza che rappresentò un importante passaggio della sua vita. Infatti, dai suoi racconti abbiamo appreso che per due anni fu di stanza a Taranto nonché imbarcato sulle navi militari. Nonno ci raccontava di aver navigato per mesi nel Mediterraneo e di aver sostato, tra l’altro, una volta in Grecia (terra che definiva magnifica) e un’altra in Spagna dove disputò, con la rappresentativa di calcio della Marina, una partita contro il Betis Siviglia, durante la quale realizzò la rete della vittoria. Terminato il servizio militare, amici santangiolini gli appiopparono la scumàgna el Marinàr».
«A Sant’Angelo siamo straordinari! Subito identifichiamo una persona con un’esperienza vissuta e poi le affibbiamo una scumàgna che l’accompagnerà per tutta la vita. E il bello è che chi viene indicato per una sua caratteristica, non solo non si offende, ma è pure contento, quand’anche non sia lusinghiera. Arriviamo al dunque: cosa ci volete raccontare della vostra famiglia?».
«Vogliamo ricordare i mestieri svolti dai nostri avi. Il primo è quello che praticò il nostro bisnonno Giovanni Varesi, detto Giàn, ambulante di angurie della Costa: utilizzando un carro trainato da un cavallo, nel periodo tra gli anni Venti e Sessanta del secolo scorso, girava tutto il Lodigiano. Mestiere proseguito con il primogenito Francesco Varesi, detto Cecòn, il quale ampliò l’attività andando a vendere cocomeri sino a Milano, utilizzando inizialmente il cavallo, poi un camioncino. Nostro nonno ci raccontava che Cecòn, di ritorno da Milano, si fermava al Naviglio pavese, dove erano presenti degli stalloni e delle trattorie per il ristoro. Anche lì, se capitava, vendeva le ingürie».
«La base di partenza era la Costa: dove precisamente?».
«In curte granda, dove vivevano i Varesi: il bisnonno Giàn con la bisnonna Maria Rozza, detta la Cimenta perché il loro cavallo era soprannominato Cimentu, proprio quello con cui Giàn andava a vendere le angurie a Milano.
«Che strana scumàgna! Eppoi?»
«Eppoi, gli altri figli di Giàn (i nostri prozii, fratelli di nostra nonna Antonia, Luigi detto Bigèn e Pietro detto Péder), per sbarcare il lunario, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del secolo scorso, si recavano nelle cascine dei paesi vicino Sant’Angelo, prima con la bicicletta poi con l’Apecar del Fürba (all’anagrafe Silvestro Guerci), gridando “sono arrivati i penàt, sono arrivati i rutamàt” per recuperare mobili, pezzi d’antiquariato, piume d’oca, utensili vari in alluminio, rame e ferro, per poi rivenderli».
«La classica storia santangiolina dell’arte dell’arrangiarsi: per mettere il pane sotto i denti il santangiolino s’ingegnava (e s’ingegna) nel fare qualsiasi cosa. Andiamo oltre, perché quello che ci aspetta in Bùsamartén è ancor più curioso: lo è, precisamente, il mestiere esercitato dagli avi di vostro nonno, i Lunghi di via San Martino e Solferino. Un mestiere mai sentito prima».
«È il mestiere svolto dal nostro bisnonno Luigi Lunghi, detto Zén, e dal figlio primogenito Gaetano Lunghi, detto Tanén, che fin da bambino, non avendo voglia di studiare, seguiva il padre nell’apprendimento di questo lavoro che consisteva nel trattamento chimico e nella vendita, che avveniva sempre nei paesi limitrofi Sant’Angelo e sempre in bicicletta, di spugne naturali per il lavaggio dei veicoli, precedentemente ammorbidite in segiòn pieni di acido. Siamo nei primi anni del Secondo dopoguerra. Tanén introdusse l’automobile quale mezzo di trasporto e alla vendita delle spugne affiancò quella dei teloni per proteggere i raccolti e le automobili, quella delle pelli di daino, nonché quella dei piumini per spolverare i veicoli fatti con piume di struzzo, le quali arrivano ancora con la sagoma dell’animale. Gli scarti, derivanti dalla lavorazione, venivano regalati ad amici e familiari. Tipica era la richiesta fatta a Tanén: “Te me regali una pel de’ daino?”. L’attività morì con lui verso la fine degli anni Ottanta».
«Ecco, Giovanni e Francesca, grazie al racconto di Martina e Andrea abbiamo appreso dell’esistenza di questo mestiere, come molti altri ormai scomparso, di cui nemmeno io avevo sentito parlare. Il rimbalzare da Borgo Santa Maria a Borgo San Martino mi dà l’occasione per raccontarvi un pezzo di storia del paese, perché Sant’Angelo non è così da sempre. I primi insediamenti umani risalgono al periodo romano, quando membri della gens Acilia si stabilirono sulla sponda destra del Lambro meridionale. Grazie al supporto di documenti d’archivio sappiamo che nell’Alto medioevo esistevano due borghi separati: quello del Cogüss, la parte più esterna, verso Pavia, di Borgo Santa Maria, probabilmente abitato senza soluzione di continuità dall’età romana, dove vi erano un castello e una chiesa dedicata, appunto, alla Madonna (da qui il nome Santa Maria); e quello di San Martino in Stabiello dove esisteva una chiesa plebana. Busamartén ha questo toponimo, non per via San Martino e Solferino (strana coincidenza) che porta alla memoria la famosa battaglia della seconda guerra d’indipendenza combattuta nei pressi del Lago di Garda, ma perché esisteva un paese, prima ancora dell’unificazione con Borgo Santa Maria, che aveva come patrono San Martino, un martire risalente all’epoca romana, motivo per il quale si può presumere che anche questa zona fosse abitata dai figli di Giulio Cesare».
«Papà, quindi Sant’Angelo quando nasce?».
«Bella e appropriata domanda, Sant’Angelo così come la vediamo, con esclusione di Borgo San Rocco che sorgerà dopo, risale al periodo longobardo, ma questa è un’altra storia che ci racconterà colui che incontreremo la prossima volta».
«E chi incontreremo?».
«Un personaggio della storia di Sant’Angelo; un’anima in pena che vaga per Bùsaroche da alcuni secoli, senza mai superare il ponte sul Lambro».