Il giorno 25 aprile ricorre l’anniversario in cui si ricorda la Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista.
L’attività resistenziale dei partigiani ebbe, senza alcun dubbio, un ruolo fondamentale per la rinascita di un Paese più giusto, ma è necessario porsi una domanda: a cosa spesso si associa il termine “Resistenza”?
Nella maggior parte dei casi, si è portati immediatamente a pensare alla lotta armata avvenuta nei luoghi di montagna o alle azioni gappiste in città. Sebbene l’aspetto militaristico della lotta per la Liberazione sia di evidente importanza, tuttavia bisogna doverosamente ricordare anche il fondamentale apporto che diede la Resistenza non violenta, a lungo trascurata anche dalla storiografia.
Lo storico Ercole Ongaro, nel suo libro “Resistenza nonviolenta 1943-45”, dà un’importanza pionieristica al primo “Convegno Nazionale sulla Difesa Popolare Nonviolenta” che si era svolto a Boves
il 4 e 5 novembre 1989, durante il quale Giorgio Giannini (allora segretario del Centro Studi Difesa Civile di Roma) aveva portato alla luce come la Commissione istituita presso il Ministero della Difesa, a seguito del Decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 n. 518, aveva riconosciuto solo la lotta resistenziale armata come fondamentale per la Liberazione, ma in verità nella Resistenza non armata sono state coinvolte molte più persone che in quella armata.
È doveroso, quindi, superare la distorsione che porta a riconoscere la Resistenza nella minoranza dei partigiani armati ed oscura la maggioranza di chi non ha impugnato le armi.
Pertanto, dare importanza al ricordo della Liberazione significa anche non dimenticare la “Resistenza civile”, categoria utilizzata a partire dal 1989 dallo storico Jacques Sèmelin per intendere: “Il processo spontaneo di lotta della società civile con mezzi non armati contro l’aggressione di cui tale società è vittima”. Coloro che boicottavano, che assistevano i ricercati, che non collaboravano, che mettevano a rischio la propria sicurezza erano dei veri resistenti e tra questi si sono distinti anche alcuni santangiolini.
Merita menzione l’aiuto che venne prestato dalla popolazione santangiolina agli ex prigionieri alleati. Lo storico Ongaro riporta come, fin dai primi anni di guerra, erano stati costituiti campi in cui venivano raccolti prigionieri nemici, soprattutto militari dell’esercito inglese, per farli lavorare nelle cascine, in modo tale da rimpiazzare i contadini impegnati con le armi.
In seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, capendo che la situazione non poteva che peggiorare con l’occupazione tedesca, questi prigionieri cercarono di salvarsi raggiungendo il territorio svizzero. Era dunque necessario l’aiuto di persone che conoscevano quei luoghi, il disporre di mezzi di trasporto e di posti sicuri dove nascondersi, perciò entrarono a far parte della Resistenza, per il soccorso prestato, persone vissute sempre nel rispetto della legge, ma che da quel momento si posero in aperta opposizione ai tedeschi e alla Repubblica Sociale Italiana. Queste persone forse non avevano la percezione di star compiendo un’azione resistenziale, ma si sentivano semplicemente in dovere di aiutare coloro che erano in difficoltà. Operanti in questo ambito, tra i tanti, si distinsero le sorelle Ravarelli e il Dott. Tenente Antonio Soini.
Un ruolo nell’opposizione non violenta lo ebbero anche le donne, esse furono un fondamentale sostegno per i militari che, a seguito dell’armistizio, scappavano per evitare i tedeschi, ai quali offrivano vestiti, cibo e nascondigli. Affrontarono anche gravi rischi per proteggere gli uomini della loro famiglia, che erano ritornati a casa, diventando dei clandestini, in quanto da militari si rifiutavano di stare agli ordini dei tedeschi oppure erano renitenti alla leva della RSI.
Importante figura santangiolina dell’opposizione non violenta fu don Nicola De Martino, promotore e sostenitore della Resistenza.
La Guardia Nazionale Repubblicana avviò un’indagine che ebbe come finalità l’individuazione di partigiani e loro sostenitori a Sant’Angelo Lodigiano, l’inchiesta conclusasi tra il 21 e il 22 dicembre 1944 portò al fermo di molte persone, tra le quali il suddetto sacerdote, accusato di essere il maggior favoreggiatore dei partigiani. Arrestato, venne portato nel carcere di Lodi, ottenendo poi gli arresti domiciliari presso don Domenico Saletta, il cappellano del carcere. Nel 1945 sarà assolto dalle accuse.
In riferimento all’attività di don Nicola, importante è la testimonianza che diede Carlo Speziani (partigiano, membro del CLN santangiolino) in risposta ad una richiesta che gli venne fatta dal Professor Gianfranco Bianchi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel febbraio del 1969, in merito ad informazioni riguardanti sacerdoti e laici attivi nella Resistenza nel territorio lodigiano: “Un gruppo di giovani, ex ufficiali del regio esercito si unì al gruppo di antifascisti locali di ogni tendenza politica ed insieme al rev. Don Nicola De Martino molto noto per le sue idee di libertà e giustizia e contrario ad ogni dittatura, costituirono il C.L.N clandestino con ritrovo nella casa del suddetto sacerdote che ne divenne l’anima e l’ispiratore”.
In via Umberto I, una pietra d’inciampo ricorda un altro importante modello di Resistenza non violenta, riportando sulla soglia di casa il tipografo Umberto Biancardi. Un uomo che non ha accettato di sottomettersi all’oppressore, che ha affiancato con la sua attività la lotta partigiana, che ha pagato con la vita il suo contributo alla circolazione di idee che avevano lo scopo di portare al rinascere di un’Italia libera. La sua tranquilla vita famigliare fu turbata dagli eventi che accaddero dopo l’armistizio con gli alleati, firmato da Badoglio il giorno 8 settembre 1943: l’Italia settentrionale fu occupata dai tedeschi, successivamente nacquero le prime formazioni partigiane.
Immerso nello spirito di questi eventi Biancardi, liberale, antifascista, credente nelle libertà di pensiero ed espressione, accettò di stampare nella sua tipografia l’edizione milanese del giornale clandestino “Risorgimento Liberale”; tutto procedette per qualche mese, ma in seguito le pubblicazioni vennero interrotte a causa dell’arresto del tipografo, il 5 agosto 1944, dopo che la polizia segreta fece un’improvvisa ricognizione nella sua abitazione e nel laboratorio e qui scoprirono alcune copie del giornale. Dopo l’arresto, venne trasferito al carcere di San Vittore a Milano, poi a Verona, successivamente di transito nel campo di concertamento di Bolzano. Come ultima tappa fu internato a Dachau, in un distaccamento a circa 12 km dalla città, dove lavorò nelle miniere, diventando solo un numero: 113151. Dopo un po’ di tempo, a causa dell’eccessiva magrezza e del deperimento fisico, fu inviato al campo principale, dove trovò la morte nelle camere a gas il 25 febbraio 1945.
Questi modelli civili fanno capire come la Resistenza non violenta sia stata senza dubbio un importante appoggio alla lotta armata, ma abbia avuto anche una sua autonomia, data dalla forza e dalla volontà di tutte quelle persone che hanno mantenuto liberi il loro pensiero e le loro azioni da qualsiasi tipo di condizionamento. In conclusione, ispirano alla riflessione le parole dell’attivista Enrico Peyeretti: “La Resistenza può essere nonviolenta, non la guerra, la distinzione tra guerra e Resistenza è indispensabile per una forte resistenza all’ingiustizia e per il ripudio della guerra”.