Il Ponte di Sant'Angelo Lodigiano Foglio d'informazione locale

La Müšlìna, casìna de santi

Quàter pàsi in gir per Sant’Angel
San Benedetto Giuseppe Labre e padre Domenico Savarè

di Emanuele Maestri

«Giovanni, Francesca, oggi ci fermiamo, per riflettere sulla storia di Sant’Angelo, a nord del Lambro meridionale, laddove Busaroche inizia a perdersi nelle campagne; laddove, abbandonate le ultime case di via Cazzulani, la vecchia e stretta strada campestre si dirige verso Marudo e Valera: insomma, dove ci sono i ruderi della Musellina e della Musella (due cascine sorelle, un tempo le più belle costruzioni del nostro territorio); incontreremo un sacerdote che ci racconterà la storia sua e della sua famiglia, nonché quella di un santo che fu ospitato dai suoi avi, sul finire del Settecento».
«Che peccato, papà, qui cade tutto a pezzi…».
«Davvero! Guardate che costruzioni diroccate, le quali riportano alla mente la ruralità santangiolina di un tempo, in cui il lavoro era basato su agricoltura e allevamento: esse sono segno tangibile del cambiamento delle attività lavorative del popolo lombardo, spostatesi progressivamente nell’ultimo mezzo secolo, al terziario. Qui a sinistra (spalle rivolte a Sant’Angelo) potete vedere i ruderi della Musella, precisamente le antiche porcilaie con interessanti particolari in cotto, in primis il rosone, ancora ben visibile; a destra, invece, ciò che resta della Musellina.


la cascina Musella

«Che strano nome, cosa vuol dire?».
«Della Musellina si ha traccia, per la prima volta, nel 1771, nel catasto asburgico, ma l’insediamento è più antico; il suo nome, come quello della Musella che ne è parte, deriva da mosa, ossia da luogo pantanoso».
«Papà, sulla parete della Musellina c’è un affresco che rappresenta un mendicante, un pellegrino. Sembra san Francesco…».

«Sembra, ma non è: l’affresco, opera del santangiolino Vittorio Toscani, è del 1883 e raffigura San Benedetto Giuseppe Labre, il santo vagabondo».
«Vagabondo?»
«Eh sì, la sua storia è particolare: Benedetto Giuseppe nacque in Francia nel 1748. Passò la sua breve vita (morì a Roma nel 1783 a soli 35 anni) vagabondando da un santuario all’altro, vivendo da povero tra i poveri. Don Giulio Mosca, nella raccolta “Pagine di storia santangiolina”, pubblicò una ricerca sul passaggio (era diretto a Roma) in terra santangiolina del santo e l’ospitalità datagli, per due notti, dalla famiglia Savarè alla Musellina, nel 1770; fatto attestato da documenti presenti nell’archivio parrocchiale (i quali riportano anche i festeggiamenti per la canonizzazione, avvenuta nel 1881), nonché da scritti di padre Domenico Savarè, testimonianza viva di quanto avvenuto».
«Papà, mi sembra di vedere un prete… Eccolo! Indossa la sottana nera, in testa ha uno strano cappello…».
«Francesca, anzitutto, la sottana è la tonaca dei sacerdoti e il cappello è il tricorno, copricapo che i preti indossavano sempre fino al Concilio Vaticano II e che oggi portano in pochi e tra questi pochi il prevosto di Sant’Angelo».
«Tricorno? Cosa vuol dire?».
«Chiediamolo a lui, lasciamo a lui la parola, facciamoci raccontare la sua storia, che è parte di quella risorgimentale».
«Solleticato dal vostro parlare, in questo luogo che fu della mia famiglia per secoli, mi sono appropinquato a voi e accolgo ben volentieri l’invito cominciando con dirvi che il tricorno ha un significato simbolico: tri sta per tre, proprio come le alette che lo sormontano e che rappresentano la Trinità. Ho sentito che vostro papà ha raccontato la storia di San Benedetto Giuseppe Labre. Aggiungo solo che, ai più, la sua vita potrà sembrare quella di un matto e in parte lo è. Chi abbandona la sua vita per Gesù? Chi decide di abbandonare tutto per seguirlo? Ieri come oggi (i tempi sono cambiati, ma il pensare della gente molto meno) chi fa scelte chiare e contro il pensare corrente è classificato come matto. “Noi dobbiamo avere particolare devozione a lui e venerarlo, perché, facendo il pellegrino a piedi dalla Francia a Roma, ha scelta e distinta fra tante cascine grandi e belle la nostra cara e piccola Musellina, in dove siamo nati, ed ha favorito della sua visita celestiale la famiglia dei nostri poveri vecchi. Me lo diceva sempre il povero papà Fermino: mi diceva che i nostri nonni per la loro carità ricevevano sempre i viandanti, ebbero così questa bella avventura di accogliere quel pellegrino francese e dargli il cibo e fargli il letto colla paglia” (scritto di padre Savarè, datato Roma,19 dicembre 1881)».
«Quindi, il passaggio in Sant’Angelo del vagabondo di Dio è cosa certa».
«Assolutamente sì e la devozione, che dura sino a oggi, seppur affievolita, lo dimostra. So che molti vorrebbero salvare dalla rovina l’affresco di San Benedetto Giuseppe Labre. Speriamo sia possibile; speriamo che la burocrazia non intralci questo desiderio che nasce dal basso, dal popolo barasino».
«Raccontaci la tua storia…».
«È ambientata nell’Ottocento, secolo in cui, in Italia, la Chiesa, con i suoi uomini, fu a dir poco bistrattata. Il periodo è quello risorgimentale. Ma partiamo dall’inizio: nacqui a Sant’Angelo il 23 novembre 1813, proprio qui alla Musellina; venni ordinato sacerdote nel 1836 a Pavia, perché la sede vescovile di Lodi era vacante e, successivamente, assegnato a Sant’Angelo; il prevosto mi diede, come compito, la cura della gioventù, che all’inizio mi spaventò non poco, ma che cercai di svolgere con spirito solerte».
«Che bello padre Domenico… Come erano i bambini di allora? Erano come noi?».
«In fondo sì, perché la freschezza e il candore della gioventù sono sempre uguali, non cambiano con le epoche storiche: allora, i ragazzi non vivevano con le interferenze della tecnologia, ma con il grosso fardello della miseria e il borgo di Sant’Angelo, anche nell’Ottocento uno dei più popolosi del Lodigiano, era davvero povero».
«Sono gli stessi anni di Don Bosco…».
«Esatto! Anni in cui era vivo il desiderio di fare qualcosa per gli ultimi, i poveri, soprattutto se ragazzi».
Don Savarè, con il benestare del prevosto mons. Bassano Dedè, nei pressi della chiesa di San Bartolomeo, diede il via al primo oratorio santangiolino, dove i bimbi venivano intrattenuti con giochi, piccoli premi, gite in campagna e impartita loro la dottrina. Quando si diffuse il colera, che a Sant’Angelo causò la morte di quattrocento persone, si dedicò all’assistenza degli infettati, senza curarsi del rischio d’ammalarsi: affittò due camere, raccolse ventiquattro bambini orfani e li affidò alla cura di una coppia di sposi. Bisognava vestirli e dar loro un piatto di minestra o un po’ di polenta, allora iniziò a girare per le strade di Sant’Angelo a chieder farina, verdure, pane e vestiti. Fece loro imparare un mestiere; si mise a scrivere spettacoli teatrali che i ragazzi iniziarono a rappresentare anche nei paesi vicini per guadagnare qualcosa. Era animato dallo spirito oratoriano di San Filippo Neri: la domenica mattina cercava i ragazzi ovunque (nelle cantine, nelle osterie) e li invitava a messa. Nacque così il primo oratorio santangiolino vicino alla chiesa di San Bartolomeo di cui era rettore.


La petizione di mons. Bassano Dedè al vescovo di Lodi per ottenere la facoltà di benedire l’affresco
a muro della Musellina e di celebrare, ogni anno, il 16 aprile, la memoria di San Benedetto Giuseppe Labre.

«Eppoi… padre Domenico cosa hai fatto?».
«Ho sempre coltivato la passione per la politica. Allora ero un suddito del Lombardo-Veneto, ma nel mio cuore, come in quello di molti italiani, anelava il desiderio di uno Stato indipendente. Ci credevo con tutto me stesso e in questo ero appoggiato da mons. Dedè, il mio prevosto. Mi sono impegnato anche sui campi di battaglia: sono stato cappellano delle truppe nella Seconda guerra d’indipendenza nelle campagne di Solferino e San Martino, dove ho curato gli infermi e le anime dei combattenti. Volevo, sì, l’Italia unita, ma non anticattolica».
«E a Sant’Angelo come la pensavano sull’unità d’Italia?».
«Eravamo divisi, anche fra il clero: da una parte io, mons. Bassano Dedé e la maggioranza dei sacerdoti; dall’altra don Bartolomeo Cagnoni, don Pietro Orsi e don Probo Rozza, i quali credevano di arrivare all’unità della Penisola secondo le modalità garibaldine. Quest’ultimi si erano alleati con Raimondo Pandini (poi primo sindaco santangiolino), il quale colse l’occasione di una mia predica poco garbata nei suoi confronti per denunciarmi alla pubblica sicurezza. Venni, quindi, arrestato e condannato a sei mesi di carcere, poi ridotti a quattro; scontata la pena detentiva ritornai a Sant’Angelo, perdonai gli accusatori e andai a ringraziarli. I miei amici, visto l’ambiente ostile, mi suggerirono di scappare; nottetempo abbandonai l’amata Sant’Angelo, perché il Signore mi aveva aperto una nuova via, al servizio di papa Pio IX, direttamente a Roma, città che raggiunsi dopo un breve soggiorno in Veneto, ancora sotto l’Austria».
«E a Roma cosa hai fatto?».
«Sono entrato nei padri Somaschi di San Gerolamo Emiliani. Il Padre generale mi volle con sé, addirittura, come teologo al Concilio Vaticano I, assise che proclamò l’infallibilità del pontefice. Arrivai, poi, a ricoprire l’incarico di rettore della Basilica di Sant’Alessio all’Aventino.
Negli anni romani predicai tanto, in quasi tutte le chiese di Roma. Non mi rifiutavo mai di farlo, da buon santangiolino mi piaceva proprio, arrivavo a predicare sino a sei volte al giorno: e pensare che soffrivo di asma, malattia che mi tormentò sino alla morte corporale, che arrivò l’11 gennaio 1895, all’età di 81 anni. Le cronache romane del tempo parlavano sovente di me: dicevano che la mia predicazione era limpida e affascinante; riuscii addirittura a predicare gli esercizi spirituali ai Gesuiti, maestri in questo».

«Hai conosciuto la Madre Cabrini?».
«Certo: mi definì un santo, ma santo non sono, anche se dicono che sarei morto in odor di santità. Fatto sta, invece, che santa è diventata lei. Un favore, però, gliel’ho fatto. Ai tempi la “Cechina” voleva aprire una casa delle sue suore a Roma, ma il cardinal Parocchi, vicario generale di Leone XIII, non voleva. Ci volle un mio interessamento e tutto si sbloccò».
Padre Savarè, a Sant’Angelo (borgo che definiva la mia patria e che amava con tutto se stesso, non sempre ricambiato), è ricordato da pochi, anche se una via a lui dedicata, in “Era”, c’é.
Il suo corpo riposa nella capitale, nella Basilica di Sant’Alessio all’Aventino, ove a imperitura memoria, sulla sua tomba, è posta una lapide che recita: “Qui giace padre Domenico Savarè (1813-1895) dell’Ordine dei padri Somaschi, angelo consolatore di ogni sofferenza ed instancabile promotore della gloria di Dio e della salvezza delle anime”.
È un grande personaggio: storico e religioso! Vale la pena tramandarne la memoria.

P.S.: chi volesse segnalare professioni ormai scomparse, curiosità, spunti d’approfondimento scriva a maestri.emanuele@gmail.com

 

 

PASSONI SENNA INOX AVIS C.F.I. 62


Fotografia di padre Domenico Savarè (1813 – 1895), risalente al periodo romano