presidente della confcommercio
ANNO 6 - N. 6 (Versione web - anno 3 n.6)
NUOVA SERIE DICEMBRE 2002
Storie di commercianti santangiolini
"Pasqualòn"
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<< Penso di essere il più
vecchio degli ambulanti di S.Angelo>>, Pasquale De Vecchi
è persona schietta, diretta, senza peli sulla lingua: questo,
dice lui, gli ha provocato anche non poche noie nella lunga carriera
di venditore e rappresentante della categoria. Classe 1922, fa parte
di quella schiera di giovani santangiolini, che durante la seconda
guerra mondiale lasciarono il paese e il lavoro per andare sui monti,
a Romagnese, aggregandosi alla sesta Brigata di Giustizia
e Libertà. Un partigiano, una persona umile, così
si descrive:<< in montagna sono andato per non farmi prendere
dai fascisti, non per idee politiche. Sono tornato un po’ prima
del 25 Aprile 1945, per controllare i movimenti dei vari comandi.
A Bargano c’erano le SS italiane e il generale Rodolfo Graziani
era tra Landriano e Vidigulfo. In Luglio ero già a Grosseto
e a Cecina, per vendere, perché facevano il grano e quindi
avevano i soldi>>.
Due aspetti diversi di De Vecchi, una parentesi
come partigiano e prima "tilè", poi "pachista",
che lo caratterizzano, e parecchio. Si sposa nel 1949 con Anna Crespi,
che lo lascia nel 1970. Da lei ha tre figli: Sergio nel 1951, Nene
nel 53 e Mariangela nel 61.
Sul tavolo del salotto, mentre parla della
storia dell’ambulantato a Sant’Angelo, apre una valigetta di pelle:
ne trae grosse foto, articoli di giornale, onorificenze. Le più
importanti però le ha appese in camera da letto. A fargli
più piacere, lo dice senza mezzi termini, è stato
il Cavalierato alla Repubblica, conferitogli nel 1968:<< Commendatore
no, non ho rubato abbastanza>>, così pare avere risposto
ironicamente, ad una successiva proposta che gli fu fatta anni addietro.
<< Ho iniziato a 12 anni, a casa da
scuola, come garzone dei fratelli Semenza, che facevano i mercati.
Abitavo all’osteria della Pesa, vicino ce n’erano parecchie altre,
e dove c’è l’Arena adesso una volta c’era il fratello di
Don Nicola De Martino che vendeva i dolciumi. Il primo giorno di
lavoro, mi sono svegliato alle 4 e mezza, e siamo andati a Orzinuovi.
Poi a 14 anni mi sono messo per conto mio,
andavo in giro, da Sant’Angelo a Bereguardo, milanese, pavese. Che
vuole, c’era bisogno di mangiare, io ho resistito fino alla quinta
elementare perché avevo l’osteria. Vendevo prettamente fazzoletti,
andavo a Milano a rifornirmi, ai magazzini, in bici. Facevo la spesa,
tenevo giù qualcosa e con quello che avevo andavo in un negozio
e mi ingozzavo di pasta rotta- racconta De Vecchi sorridendo- amaretti,
biscotti. Dopo sono andato con la tela, in compagnia con altri,
in auto. Avevo il 501, la Balilla, l’Augusta, tutte di seconda mano.
Poi nel 55 ho preso la 600 di prima mano e sono andato a Parigi.
Io e Colombo Grossi, siamo rimasti fermi là 20 giorni. Non
avremmo potuto andare a Parigi a vendere, la merce l’abbiamo presa
a Milano e poi un ebreo ce l’ha portata a Parigi. Ricordo ancora,
abitava in Rue De Pyrénées>>.
Perché proprio l’ambulante.
E come lei, perché tanti altri santangiolni scelsero di diventare
"tilè"?
<< Era una necessità
di vita, c’era ad esempio chi andava in giro con la frutta e la
verdura, chi col cavallo e il "biroccio", come i Cerri-Manenti
e i Roderi. Prima della seconda guerra mondiale non c’era altra
possibilità di lavoro, nessuna fabbrica. A San Colombano
andavano a fare i camerieri, a Graffignana andavano a Milano ad
accendere le caldaie. Della mia generazione siamo in parecchi, nel
60 eravamo 400 ambulanti e 250 commercianti fissi. Quando abbiamo
fatto le votazioni per mandare i delegati a Milano, i nostri consiglieri
erano 4 contro i 2 dei fissi.
C’era chi cercava di copiarci, come
il paese di Pralboino in provincia di Brescia, che erano però
una minima parte rispetto a noi, e Rovelasca. Lì gli ambulanti
sono stati più furbi, si sono associati e hanno fatto le
cooperative. La tela però l’abbiamo importata dai baresi.
Hanno inventato loro i nostri "canòn de tila",
poi li hanno portati su. Dopo la tela è nato il pacco, nel
1955. C’erano due diversi tipi: il pacco di biancheria e il pacco
vestiario, che costava meno. In quel periodo io sono stato l’unico
ambulante di S.Angelo che veniva rifornito direttamente dalla Bassetti.
Erano due fratelli di Milano, li conoscevo tramite la Dc. Non davano
mai i pacchi direttamente agli ambulanti, ma ai grossisti. E invece
io ho avuto questa concessione>>.
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In giro tutto il giorno, casa per casa.
Ci voleva una bella faccia tosta per vendere. Eravate tutti così?
<< A volte però si prendeva
anche l’uscio in faccia. E quando cominci ad avere una certa età
la perdi la faccia tosta. Ma non si vendeva solo tela, e soprattutto non
era un sistema unico. C’era chi aveva già i suoi clienti, chi andava
per cascine, chi porta a porta. Io viaggiavo, stavo via 30, 40 giorni
in tutta Italia, sino al centro. Abbiamo provato anche al sud, ma non
si faceva niente. Andavamo dopo i raccolti perché i contadini avevano
i soldi. La soddisfazione era di lavorare autonomamente, non volevamo
andare sotto padrone, ma liberi e autonomi, anche di dire quello che pensavamo>>.
Sulle tecniche di vendita si è
detto di tutto. Con un eufemismo si può dire che a volte non erano
proprio del tutto chiare.
<< "Anca el por màlan
el pudèva fà el pachìsta"- dice con convinzione
De Vecchi- perché avevamo i nominativi dell’ente- e qui De Vecchi
non specifica, di mezzo pare esserci anche la politica- che ci rappresentava
e ci accompagnava nei paesi, come garante. C’erano anche quelli che imbrogliavano.
Dicevano che vendevano merce rubata, sottocosto. Oltre al guadagno c’era
anche la soddisfazione di aver fregato uno che pensava di essere il più
furbo di tutti e di fare solo lui l’affare>>.
Pasquale De Vecchi premiato dal
presidente della Confcomemrcio
Una curiosità, quando ha smesso?
<< Ho smesso nell’ottanta, anche
se già dal settanta avevo abbandonato il porta a porta e vendevo
abiti da lavoro agli ospedali. Poi mi sono dedicato e impegnato alla categoria.
Ma chi prima andava con i pacchi, oggi si è accorto che non funziona
più, e si adatta a fare altri tipi di vendita, ad esempio per gli
ospedali, e per gli istituti religiosi. Adesso torniamo un po’ indietro,
scriva questa: mi capitò di essere a Bolzano, per lavoro, nel 1941,
prima di andare a militare. Passavano i primi prigionieri catturati dai
tedeschi, erano slavi. Nella via c’era un tabaccaio e io comprai 50 pacchetti
di sigarette e li diedi a tutti i prigionieri. Non le dico quanto spesi,
tutto quello che avevo in tasca, e nemmeno cosa mi disse dopo mio padre.
Ma comunque, da una finestra una donna mi vide, e seppur in quella zona
fossero molto diffidenti, mi fece salire. Portò in casa il rotolo
di tela, mi lasciò sulla porta. Poi uscì, aveva nel frattempo
misurato la tela, e si doveva essere sicuramente accorta che era un po’
meno di quella dichiarata. Ma accettò comunque il prezzo che io
le proposi. Quello che le domandai, mi diede. Gliene dico un’altra: lo
sa che io, dopo la guerra, ho dato 14 "paltò", già
fatti, ai "vegiòn", che erano ancora vicino all’ospedale
vecchio in piazza De Martino. Monsignor Giuseppe Molti voleva dirlo in
chiesa e io gli dissi che se l’avesse fatto, non avrei più donato
i "paltò". Anche adesso non lo sa nessuno, tranne il
vecchio sindaco, Gino Pasetti. Ma non lo scriva, non lo dica, non voglio
mettere in evidenza quello che ho fatto>>.
Insomma, Pasquale De Vecchi non è
solo il decano dei pacchisti barasini. Ha fatto tante cose, più
volte segnala episodi di quando era partigiano, e forse quell’esperienza
gli ha dato la forza di dire sempre quello che pensa. Sul finire della
chiacchierata, prende a parlare di politica locale. Troppo ghiotta l’occasione
per lasciarsi sfuggire qualche suo ricordo. Su domanda precisa, racconta
l’atmosfera della campagna elettorale del 1948, con lo scontro tra il
Fronte Popolare, socialcomunista e la Democrazia Cristiana. Più
volte però ordina di non scrivere quello che dice: non vuole indispettire,
con commenti anche coloriti, alcuni dei protagonisti della politica barasina
di allora. Proseguendo:<< La campagna elettorale si svolse in un
clima greve, una brutta atmosfera. I preti venivano a tirare i pantaloni,
e c’era una paura tremenda. Le cito un detto che in paese girava : "nà
podi pù d’andà a cagà per fà nète el
cul cun l’Unità", ma su queste cose attenzione: "ghera
d’andà a masas de bote">>.
Lorenzo Rinaldi
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