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Il porticato in stile liberty fa bella mostra di sé in piazza Libertà. Di fronte se ne erge uno, identico nella fattura. Sono lì a ricordare i lunghi filari di colonne che un tempo, fino al 1918, accerchiavano la piazza, regalandole un aspetto tanto imponente quanto decisamente rurale. Arrivando da via Umberto Primo, sulla sinistra della piazza, poco prima del castello Bolognini, è il porticato al civico 17 ad attirare l’attenzione. Sotto di esso, fino al Marzo del 2001 ha trovato posto uno dei negozi più antichi di S.Angelo. Antico innanzitutto per la data di apertura, ma il particolare più significativo sta nel genere commerciale che vendeva. Cappelli, da uomo soprattutto. Di quelli che oggi indossa ancora solo chi ha parecchie primavere sulle spalle. Ma che negli anni addietro hanno rappresentato una sorta di "status symbol", indicatori della classe sociale e delle tasche di chi li indossava.
Da questo punto sono le parole di Enrico a tracciare la storia del negozio di famiglia. << Il nuovo negozio è stato inaugurato nel 1923, un’attività commerciale con tessuti, biancheria, un po’ di tutto. Si commerciava tanto con il mondo contadino, e questi quando venivano a far la spesa facevano una gran provvista. C’è stato un momento che mio papà vendeva anche il "mobilio", capitava che anche i figli dei "paisan" si sposassero. Pian piano l’attività però si sposta dai tessuti ai cappelli>>. Nei locali del vostro stabile, appoggiata a un muro c’è una lunga insegna in caratteri ricercati. " La Rifiorente" porta scritto. Ma perché proprio questo nome per un negozio di cappelli? << La costruzione del nuovo stabile termina nel 1923- prende a spiegare Enrico- e in quell’anno a Milano apre "la Rinascente". Il nome del negozio di mio papà per assonanza divenne quindi "Rifiorente" e scritto con gli stessi caratteri del grande magazzino milanese. Un colosso ai tempi, la sua nascita fu un avvenimento. A Milano fece scalpore, si insediò sotto i portici di piazza Duomo>>.
Ha citato più volte la frase: quando muore un cappellaio non ne nasce un altro. Lei è dunque un artigiano del cappello in tutti i sensi. << Ho cominciato arrabattando da solo, rubando con gli occhi, non sono mai andato a imparare il mestiere. Diciamo che non ho mai fatto il garzone da qualcuno che mi insegnasse come confezionare i cappelli. Guardavo chi già li sapeva fare, quando andavo nelle fabbriche a comprarli per il negozio. Ricordo che tenevamo il "Borsalino", tra i migliori sulla piazza. La ditta era ad Alessandria e già nell’800 produceva cappelli da uomo. E poi il "Bantam" della ditta "Il Cervo" di Biella. Il modello era famoso perché davvero leggero. A Monza invece andavamo a comprare i cappelli più "andanti", quelli che costavano un po’ meno. Tenevamo dal modello classico in feltro, che è fatto di pelo di coniglio, al cappello in lana, ma sempre con la stessa forma. Ma anche il berretto, quello che i siciliani chiamano la "coppola". E poi c’erano i contadini che facevano man bassa di cappelli di paglia per il lavoro. Comunque fino alla seconda guerra quelli più venduti erano in feltro, poi si è passati a quelli in stoffa, con la differenza però che il primo è più lavorabile, con la tecnica a caldo gli davo qualsiasi forma. Ma bisogna dire che nonostante avessimo cappelli sia da uomo che da donna, quest’ultime erano più restie ad indossarli a S.Angelo, come in tutti i piccoli paesi. Invece nelle grandi città, come Milano ad esempio le signore andavano alle "modisterie", dove i cappelli erano guarniti meglio. Perché c’è differenza tra farne uno per l’uomo e uno per la donna. Mi lasci poi ricordare "i tilè" che per noi, commercialmente parlando erano i clienti preferiti. Al ritorno dai loro viaggi, nei quali vendevano la tela, ambivano a "fare la spesa del cappello", che allora era sinonimo di eleganza. Erano da ammirare però, perché portavano a casa i soldi, nel paese. Avrebbero potuto comprare il cappello altrove, mentre erano in viaggio. Invece no, aspettavano di tornare a S.Angelo.>>. Un’ultima curiosità: fino a poco tempo fa, ogni mercoledì e domenica mattina il vostro banco era sempre presente al mercato. Per anni la stessa posizione, proprio davanti al negozio. Ma quando avete iniziato? << Abbiamo iniziato a "mettere il banco" nel 1962, quando alla guida del negozio sono arrivato io. E poi, quando il banco è cominciato ad andar giù, negli anni 80, abbiamo innestato anche le scarpe. Ma questo è solo la fine, il vero negozio era quelli di cappelli, l’articolo storico che già mio padre vendeva "quande sèreme amò nel site vege">>. Nei locali al civico 17, dove una volta c’erano negozi, ora ci sono decine e decine di attrezzi, refuso dell’attività che ha chiuso ormai da oltre un anno. Ma Enrico Beccaria li conserva ancora gelosamente. Sono grosse semisfere in legno per dare la misura ai cappelli, allargandoli quando serve. E poi forme, sempre in legno per la "cupola", e ancora attrezzi per formare la "tesa" del cappello. Tesa che va stirata sulla "forma", a caldo, e poi un’altra serie di aggeggi e di nozioni che Beccaria, uno degli ultimi cappellai barasini, spiega con un disinvoltura tutta sua. <<Gli attrezzi li ho fatti fare io a Monza, da un falegname specializzato, vicino a una grande fabbrica, di cappelli appunto. Allora, parlo di parecchi anni addietro, Monza era piena di fabbriche del settore, adesso ce ne saranno ancora due o tre>>. Lo scorso inverno il signor Enrico e la moglie allestirono anche una vetrina nel negozio ormai chiuso, con tutti gli attrezzi, quasi a non voler dimenticare cento anni di storia. Fece notizia, in molti si fermarono, approfittando dell’atmosfera natalizia a rimirare vecchi strumenti impolverati, cappelli di un tempo, e insegne pubblicitarie degli anni sessanta e settanta. Oggi, quella vetrina non c’è più. E al posto dei ricordi del vecchio negozio di cappelli c’è un’agenzia di viaggi.
Lorenzo Rinaldi |
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