la
peste nel seicento
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Altri contagi apparvero frequentemente nei
secoli XV e XVI, dei quali non si conosce l’effettiva diffusione nel nostro
territorio, eccetto quelli del 1485 e del 1524 di cui i cronisti dell’epoca
riferiscono il grande numero di vittime, soprattutto nella città di Lodi. Anche lo storico santangiolino
Giovanni Pedrazzini Sobacchi
rammenta di una “fierissima pestilenza” che
ha colpito il nostro Borgo nell’anno 1504 (G. P. Sobacchi,
Sant’Angelo Lodigiano e il suo Mandamento…, Archivio
Storico di Lodi, 1922, pag. 143).
Nel suo studio, l’Agnelli riporta un documento
compilato da Pietro Martire Boldone, Maestro
di Campo delle Milizie Urbane e Governatore della Città di Lodi e Giudice
della Sanità, con un resoconto degli interventi per preservare dalla peste.
In questa sorta di diario enumera dettagliatamente i decessi avvenuti
in Lodi a causa del contagio, che sommavano a 127, nel periodo dal 29
maggio al 4 settembrre 1630 (G. Agnelli, op. cit., pagg. 176-182). Facendo un raffronto con la nostra borgata,
il periodo di contagio è quasi simile, perché il primo caso documentato
di morte di peste a Sant’Angelo è del 1 giugno
1630; si trattava di una donna, Monicha Cordona, di 48 anni di età. Dopo questo decesso, la mortalità
pestilenziale riprendeva nel mese di settembre dello stesso anno con 5
morti, raggiungendo la punta massima di 31 nel mese di ottobre, per poi
scendere a 8 in novembre e 4 in dicembre. In totale furono 49, ufficialmente
notificati, i deceduti a causa della peste (dal Libro dei Morti, Archivio parrocchiale di Sant’Angelo
Lodigiano).
Esaminando il Libro dei Morti, balzano evidenti
altri dati che suscitano qualche interrogativo. Nel 1627 sono certificati
152 morti, nei tre anni successivi si verificava un’impennata: 222 nel
1628, 525 nel 1629 e 410 nel 1630. I dati ritornavano alla normalità nel
1631 con 159 morti; 178 nel 1632 e 146 nel 1633. Se, come è documentato, la peste si diffuse
a Milano tra l’ottobre e il novembre del 1629, non si spiega l’elevata
mortalità nello stesso anno. Una spiegazione può essere quella che oltre
ai morti per carestia, la peste sia arrivata prima da noi che nel capoluogo
lombardo, e che nessuno abbia intuito e diagnosticato la causa della malattia.
Se ne deve dedurre che i morti di peste dovevano essere molti di più e
non segnalati come tali nel registro. A tale proposito è illuminante quanto scrive
il card. Federico Borromeo,
nel suo De Pestilentia:
“ …Io mi limiterò a riferire quanto
accade a Milano, in modo che chiunque possa da ciò dedurre quanti fatti
simili e anche più atroci siano potuti accadere nelle campagne, dove evidentemente
vi era maggiore licenza e meno possibilità di organizzare soccorsi"” Quando il Vescovo di Lodi
Clemente Gera, fu avvertito dell’avvicinarsi
del morbo, incaricò alcuni sacerdoti nella città e nella diocesi di assistere i colpiti, portando loro gli estremi
conforti della fede. Proibì ai parroci di avere relazione diretta con
gli infetti o con i sospetti, se non nell’eventualità di gravissima necessità
(G. Agnelli, op. cit.,
pag.171). Sono stati molti i sacerdoti che hanno pagato
con la vita il dovere dell’assistenza agli appestati. Fra questi anche
un santangiolino, Giovanni Battista Giotti, religioso carmelitano col nome di fra Teofilo di Santa
Caterina, che moriva il 17 agosto 1630 mentre soccorreva i colpiti dal
contagio nel Lazzaretto di Porta Lodovica a Milano. (cfr.
A. Saletta, Frate santangiolino
vittima della peste, Il Ponte, dicembre 2001). Nella città e nelle località del Contado
operavano i Conservatori di Sanità, a cui erano affidate attribuzioni
nella cura della salute pubblica. Ed è appunto da questi Deputati di Sant’Angelo che proviene una lettera, datata 5 luglio1630,
con la richiesta al Vescovo di benedire un “cemeterio” per riporvi gli infetti
di peste. Nella missiva si comunicava che nella nostra borgata erano morti
dei sospetti di contagio, sepolti in un luogo fuori dalla chiesa (in quel
periodo i defunti venivano inumati all’interno delle chiese o attorno
ad esse), e siccome probabilmente il luogo non era troppo idoneo, si chiedeva
di consacrare un altro luogo “da
noi nuovamente ritrovato più opportuno del primo,
sì per essere cinto di acque, sì anco per haver annesse case capaci per i monatti” (Archivio parrocchiale di Sant’Angelo, cartella “Chiese Lazzaretto e Santa Marta”). Il giorno stesso, arrivò il parere favorevole
del Vicario Generale della Diocesi, Mons. Mondini, il quale concedeva la facoltà di benedire il luogo
prescelto, invitando il Rettore ad accertarsi che sia “lontano dall’abitato, cinto di muro, o di forte siepe, s’abbia nel mezzo
una croce alta”, concedendo altresì il permesso di “trasferire il cadavere altre volte seppellito
in campagna”. Il luogo scelto fu quello
che ancora oggi, a Sant’Angelo, è chiamato il
Lazzaretto, situato nei pressi del fiume Lambro
ed allora molto lontano dall’abitato, come è possibile osservare in alcune
mappe dell’epoca. Esiste un documento del 5 maggio 1714 che
rende certa questa localizzazione. Il Rettore Giuseppe Senna chiede al
Vescovo il permesso di ricostruire e ampliare una piccola cappella in
rovina dedicata alla Madonna “situata
in S. Angelo nel luogho del Lazaretto”, dove
i fedeli santangiolini si recano a suffragare
i defunti che ivi si trovano. A maggior riprova, vi è un’altra lettera,
datata 30 aprile 1743, a firma del sacerdote Agostino Capello e degli
amministratori Defendente Senna, Agostino Sommariva
e Gerolamo Senna che chiedono al Vescovo la possibilità di ottenere una
S. Messa domenicale in un oratorio situato “appena
fuori dal Borgo di S.to Angiolo di questa diocesi
in un recinto di terreno ove soleasi sepellire
li morti dal mal contagio, d’indi in esso si sotterrano le ceneri dei
sepolti nella Parrocchia del medesimo Borgo in occasione dell’evacuazione
dei sepolcri”. Mons.
Nicola De Martino, nel suo volumetto “Sant’Angelo ed il suo Castello”, pubblicato nel 1958, ricorda
che la Crocetta posta attualmente in un angolo di piazza dei Caduti, è
stata innalzata nel 1630 per fare memoria di quell’evento
calamitoso; mentre la colonna esistente sul sagrato, fu posta nel 1727
in adempimento di un voto popolare per la cessazione di una ennesima pestilenza. Antonio
Saletta (2 – fine) La prima parte è stata pubblicata
su “Il
Ponte”, anno 7, n°.1. |
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