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IL PONTE
la peste nel seicento
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ANNO 7 - N. 2 (Versione web - anno 4 n.2) NUOVA SERIE APRILE 2003

Il Seicento a Sant’Angelo

Tempo di carestia, guerra e peste

Il contagio e la mortalità nel borgo barasino

      La peste del 1630, non fu che una delle tante epidemie che infierirono per tre secoli in Europa, lasciando tristi ricordi. La storia e la letteratura ci hanno tramandato, ad esempio quella celebre che dal 1346 al 1353 devastò l’Europa facendo circa 25 milioni di vittime dove trovò la morte Laura, la donna amata da Francesco Petrarca.

     Altri contagi apparvero frequentemente nei secoli XV e XVI, dei quali non si conosce l’effettiva diffusione nel nostro territorio, eccetto quelli del 1485 e del 1524 di cui i cronisti dell’epoca riferiscono il grande numero di vittime, soprattutto nella città di Lodi.

     Anche lo storico santangiolino Giovanni Pedrazzini Sobacchi rammenta di una  fierissima pestilenza  che ha colpito il nostro Borgo nell’anno 1504 (G. P. Sobacchi, Sant’Angelo Lodigiano e il suo Mandamento…, Archivio Storico di Lodi, 1922, pag. 143).

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Una bella immagine della chiesa del Lazzaretto, in una cartolina dei primi anni del '900

Una testimonianza che queste epidemie abbiano colpito, anche fuggevolmente, la nostra popolazione, può essere la presenza a Sant’Angelo di una cappella dedicata a San Rocco, che lo storico Don Giulio Mosca in un suo recente studio ritiene edificata nella seconda metà del 1400, ipotesi avvalorata dai recenti restauri che hanno messo in luce interessanti elementi dell’originaria costruzione (Don Giulio Mosca, La chiesa di San Rocco, “La Cordata”, n. 11, novembre 2002).

     L’erezione di una cappella dedicata a San Rocco, può significare come la comunità santangiolina abbia voluto invocare il santo che assistette gli appestati e contrasse lui stesso la malattia, quale protettore della comunità da quel flagello.

     Interessante anche la presenza nella chiesa dell’effige di San Sebastiano, anch’egli eretto della devozione popolare a protettore della peste.

     Le statue dei due santi furono collocate in due nicchie della chiesa, nell’anno 1652, pochi anni dopo la cessazione della peste del 1630 (Don G. Mosca, op. cit.).

     Per merito di Giovanni Agnelli, che della peste “manzoniana” si è maggiormente occupato, abbiamo notizie più numerose sulle cause e sulla sua propagazione nel nostro territorio. Lo storico racconta che l’esercito alemanno diffuse la peste e il contagio attecchì trovando condizioni favorevoli, quali la fame sofferta per la carestia, i soprusi delle soldatesche, la mancanza di efficaci provvedimenti da parte delle autorità, l’ignoranza delle popolazioni che non sapendo interpretare le cause del contagio portava a credere nell’origine dolosa della pestilenza (G. Agnelli, op. cit., pag. 170).

     Nel suo studio, l’Agnelli riporta un documento compilato da Pietro Martire Boldone, Maestro di Campo delle Milizie Urbane e Governatore della Città di Lodi e Giudice della Sanità, con un resoconto degli interventi per preservare dalla peste. In questa sorta di diario enumera dettagliatamente i decessi avvenuti in Lodi a causa del contagio, che sommavano a 127, nel periodo dal 29 maggio al 4 settembrre 1630 (G. Agnelli, op. cit., pagg. 176-182).

     Facendo un raffronto con la nostra borgata, il periodo di contagio è quasi simile, perché il primo caso documentato di morte di peste a Sant’Angelo è del 1 giugno 1630; si trattava di una donna, Monicha Cordona, di 48 anni di età. Dopo questo decesso, la mortalità pestilenziale riprendeva nel mese di settembre dello stesso anno con 5 morti, raggiungendo la punta massima di 31 nel mese di ottobre, per poi scendere a 8 in novembre e 4 in dicembre. In totale furono 49, ufficialmente notificati, i deceduti a causa della peste (dal Libro dei Morti, Archivio parrocchiale di Sant’Angelo Lodigiano).

   Il contagio si estese all’intero borgo, sia all’interno che all’esterno delle mura. Un’analisi attenta del Libro consente di localizzare il numero dei colpiti nelle varie zone del paese: 8 a Borgo Santa Maria, 6 a Borgo San Martino, 5 in Contrada, 4 a Borgo San Rocco, 4 alla Guattera, 3 in Piazza, 2 al Pozzone, 1 alla Porta di Santa Cristina (!) e ancora 1 rispettivamente alla Ranera, alla Pedrina e alla Battistina. Di altri 12 non è possibile determinare la località perché manca l’indicazione o perché la scrittura è illeggibile.

     E’ interessante pure conoscere i nomi dei colpiti dal morbo, vi sono cognomi ancora oggi esistenti: Abbiati, Brambilla, Roderi, Cerri, Saletta, Amici, Cavallini, Ceresa, Grazioli, ecc.; altri ormai scomparsi: Rovello, Magnone, Vegeto, Scotto, Longo, Padoano, Regaglia, Grillo, Forte, Pestone, ecc. L’età oscillava tra i 4 e gli 80 anni; precisamente, diciassette nella fascia fino a 20 anni; ventidue da 21 ai 50 anni e dieci oltre i 50 anni.

la peste nel seicento

     Scorrendo l’arida sequenza di nomi e date di questo libro, ci si imbatte in situazioni che richiamano alcune pagine famose del romanzo manzoniano, madri e figli uniti nello strazio della morte; come quello riguardante Francesco Pestone di 6 anni, morto a distanza di un giorno dalla mamma Margherita di anni 30 abitanti in Borgo Santa Maria, oppure quello di Maria Elisabetta Montalliano di anni 55 con il figlio Francesco di anni 16, morti lo stesso giorno in località Contrada.

     Esaminando il Libro dei Morti, balzano evidenti altri dati che suscitano qualche interrogativo. Nel 1627 sono certificati 152 morti, nei tre anni successivi si verificava un’impennata: 222 nel 1628, 525 nel 1629 e 410 nel 1630. I dati ritornavano alla normalità nel 1631 con 159 morti; 178 nel 1632 e 146 nel 1633.

       Se, come è documentato, la peste si diffuse a Milano tra l’ottobre e il novembre del 1629, non si spiega l’elevata mortalità nello stesso anno.

     Una spiegazione può essere quella che oltre ai morti per carestia, la peste sia arrivata prima da noi che nel capoluogo lombardo, e che nessuno abbia intuito e diagnosticato la causa della malattia. Se ne deve dedurre che i morti di peste dovevano essere molti di più e non segnalati come tali nel registro.

     A tale proposito è illuminante quanto scrive il card. Federico Borromeo, nel suo De Pestilentia: “ …Io mi limiterò a riferire quanto accade a Milano, in modo che chiunque possa da ciò dedurre quanti fatti simili e anche più atroci siano potuti accadere nelle campagne, dove evidentemente vi era maggiore licenza e meno possibilità di organizzare soccorsi"”

     Quando il Vescovo di Lodi Clemente Gera, fu avvertito dell’avvicinarsi del morbo, incaricò alcuni sacerdoti nella città e nella diocesi  di assistere i colpiti, portando loro gli estremi conforti della fede. Proibì ai parroci di avere relazione diretta con gli infetti o con i sospetti, se non nell’eventualità di gravissima necessità (G. Agnelli, op. cit., pag.171).

     Sono stati molti i sacerdoti che hanno pagato con la vita il dovere dell’assistenza agli appestati. Fra questi anche un santangiolino, Giovanni Battista Giotti, religioso carmelitano col nome di fra Teofilo di Santa Caterina, che moriva il 17 agosto 1630 mentre soccorreva i colpiti dal contagio nel Lazzaretto di Porta Lodovica a Milano. (cfr. A. Saletta, Frate santangiolino vittima della peste, Il Ponte, dicembre 2001).

     Nella città e nelle località del Contado operavano i Conservatori di Sanità, a cui erano affidate attribuzioni nella cura della salute pubblica. Ed è appunto da questi Deputati di Sant’Angelo che proviene una lettera, datata 5 luglio1630, con la richiesta al Vescovo di benedire un “cemeterio” per riporvi gli infetti di peste. Nella missiva si comunicava che nella nostra borgata erano morti dei sospetti di contagio, sepolti in un luogo fuori dalla chiesa (in quel periodo i defunti venivano inumati all’interno delle chiese o attorno ad esse), e siccome probabilmente il luogo non era troppo idoneo, si chiedeva di consacrare un altro luogo “da noi  nuovamente ritrovato più opportuno del primo, sì per essere cinto di acque, sì anco per haver annesse case capaci per i monatti”  (Archivio parrocchiale di Sant’Angelo, cartella “Chiese Lazzaretto e Santa Marta”).

     Il giorno stesso, arrivò il parere favorevole del Vicario Generale della Diocesi, Mons. Mondini, il quale concedeva la facoltà di benedire il luogo prescelto, invitando il Rettore ad accertarsi che sia “lontano dall’abitato, cinto di muro, o di forte siepe, s’abbia nel mezzo una croce alta”, concedendo altresì il permesso di “trasferire il cadavere altre volte seppellito in campagna”.

     Il luogo scelto fu quello che ancora oggi, a Sant’Angelo, è chiamato il Lazzaretto, situato nei pressi del fiume Lambro ed allora molto lontano dall’abitato, come è possibile osservare in alcune mappe dell’epoca.

     Esiste un documento del 5 maggio 1714 che rende certa questa localizzazione. Il Rettore Giuseppe Senna chiede al Vescovo il permesso di ricostruire e ampliare una piccola cappella in rovina dedicata alla Madonna “situata in S. Angelo nel luogho del Lazaretto”, dove i fedeli santangiolini si recano a suffragare i defunti che ivi si trovano.

     A maggior riprova, vi è un’altra lettera, datata 30 aprile 1743, a firma del sacerdote Agostino Capello e degli amministratori Defendente Senna, Agostino Sommariva e Gerolamo Senna che chiedono al Vescovo la possibilità di ottenere una S. Messa domenicale in un oratorio situato “appena fuori dal Borgo di S.to Angiolo di questa diocesi in un recinto di terreno ove soleasi sepellire li morti dal mal contagio, d’indi in esso si sotterrano le ceneri dei sepolti nella Parrocchia del medesimo Borgo in occasione dell’evacuazione dei sepolcri”.

     Mons. Nicola De Martino, nel suo volumettoSant’Angelo ed il suo Castello”, pubblicato nel 1958, ricorda che la Crocetta posta attualmente in un angolo di piazza dei Caduti, è stata innalzata nel 1630 per fare memoria di quell’evento calamitoso; mentre la colonna esistente sul sagrato, fu posta nel 1727 in adempimento di un voto popolare per la cessazione di una ennesima pestilenza.

 

Antonio Saletta 

(2 – fine)

 

La prima parte è stata pubblicata su “Il Ponte”, anno 7, n°.1.

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