fabbrica
di corda
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«Lavoravano a San Martino e al Lazzaretto, ma
i cordai venivano anche dalla Costa e da Borgo San Rocco. Le lavorazioni
erano impiantate in una particolare zona del paese proprio perchè lì c'era
disponibilità di spazi: insomma San Martino si prestava ad ospitare i
lunghi “santé” usati per fare la corda». C'è forse anche un motivo legato alle
differenze socio-economiche tra i diversi quartieri? «San Martino era uno dei quartieri più poveri
di Sant'Angelo, tra i più popolati. Come pure la Costa e San Rocco. I
cordai venivano dalle zone meno ricche. Per la maggior parte si trattava
di gente che viveva con difficoltà finanziarie, tant'è vero che a fare
la corda si mandavano anche i figli. C'erano maschi adulti, e poi le mogli
e i bambini. La corda insomma ha costituito per molti una valvola di sfogo,
che alleggeriva dal peso economico intere famiglie in difficoltà. Era
un lavoro di miseria, chi produceva guadagnava poco, e guadagnavano poco
anche gli operai. D'inverno poi era difficile lavorare, perchè la corda
si faceva all'aperto. A volte si stava fermi addirittura per intere settimane,
ad esempio per tutto il mese di gennaio». Davvero interessante. Mi dia qualche
dato in più sui cordai. Quanti erano, diciamo, nel periodo del boom? «Sicuramente più di cento, a ridosso della seconda
guerra mondiale. A Sant'Angelo ci saranno stati circa una decina di imprenditori
che si occupavano della manifattura della corda. Poi c'erano i dipendenti,
gli avventizi, gli operai stagionali». Pare di capire che quelli prima della
guerra, in periodo fascista, siano stati anni floridi
per i cordai. E' così? «A San Martino ci sono sempre stati, certo è
che a partire dagli anni Trenta, e poi con la guerra sono aumentati per
via delle commesse belliche. La corda serviva ad esempio per le maniglie
delle casse militari. In borgo San Rocco in tempo di guerra arrivarono
addirittura da Alessandria ad impiantare i “santé». Approfondiamo quest'ultima notizia.
«Mi pare che si fossero insediati nei pressi
di viale Montegrappa, li chiamavano i “mandrogn” o qualcosa del genere.
Quelli non sapevano niente di corda, erano digiuni del mestiere. L'attività
l'hanno iniziata con gli operai di Sant'Angelo. Avevano grandi mezzi finanziari,
e sono venuti proprio da noi perchè erano certi che qui avrebbero trovato
la manodopera già preparata. Poi, con la fine della guerra, se ne sono
andati». I cordai barasini erano quindi estremamente
ricercati. Sant'Angelo non importava lavoratori per questa manifattura? «In determinati periodi venivano in paese quelli
che lavoravano la canapa da usare poi per i filetti. Arrivavano ad esempio
dalla provincia di Rovigo, e lavoravano qui. Credo lo facessero per la
vicinanza di Sant'Angelo con Milano, e poi perchè qui la lavorazione era
già avviata». Gli ultimi cordai hanno smesso negli
anni Settanta, Ottanta. Quando cominciò il declino della corda barasina?
«Dopo la seconda guerra mondiale le grandi fabbriche
ricostruite si sono messe a produrre la corda in grandi quantitativi.
Sant'Angelo avrebbe avuto bisogno di ingenti capitali per poter riconvertire
la lavorazione artigiana della corda in lavorazione industriale. Una macchina
faceva il lavoro di sette, otto persone. Ci sono stati però alcuni cordai
barasini che hanno continuato a servire dei committenti precisi, ad esempio
nel Milanese. Lavoravano per conto terzi, e sono riusciti a superare il
periodo di crisi, e ad andare avanti».
Risulta ci sia qualche legame tra Sant'Angelo e l'Emilia per quanto riguarda
la corda. Conferma? «Ai cordai serviva la canapa, la materia prima.
Si rifornivano appunto in Emilia, a Bologna, o a Cento. La compravano
però anche a Rovigo. Si producevano diversi tipi di corda: c'era lo spago
tradizionale, quello per tutti gli usi, oppure i rafforzini, per le reti
da pesca o per far lavorare le macchine per la tessitura, e poi la corda
vera e propria, di qualsiasi misura». Lei proviene da una famiglia di cordai.
Chi ha iniziato? «Già mio nonno paterno, Francesco, aveva avviato
una lavorazione. Io ho ricordi però dell'attività di mio padre, fondata
dopo la prima guerra mondiale, nel 1918. I “santé” erano inizialmente
impiantati in via San Martino, e la società era formata da mio padre Angelo,
classe 1887, e da suo fratello Luigi. Poi la società si sciolse, e mio
padre continuò da solo in via Lazzaretto, proprio nel campo dietro casa
mia. Andò avanti fino alla seconda guerra mondiale. Nei primi anni del
dopoguerra tentò di riavviare l'attività assieme agli operai, ma ormai
non c'era più la possibilità di lavorare in maniera artigianale. Anche
due miei zii facevano i cordai. Erano Antonio e Giuseppe Pasetti, fratelli
di mio padre, che avevano i “santé” nella zona della Vignola». Ci abbozzi una mappa della clientela… «Mio padre aveva clienti sparsi un po' dappertutto,
a Bologna, in Piemonte a Carmagnola, e poi nel sud Italia, ad esempio
a Sarno e a Catania. In quest'ultima città inviava dei filati fini da
usare per le reti da pesca. Ma produceva anche dei lunghi cordoni di 200
metri. Gli vennero commissionati pure dagli Stati Uniti, proprio al culmine
della seconda guerra mondiale. Li avrebbero pagati loro, ma erano poi
da destinare ai russi. Ricordo che vennero da mio padre gli americani
con i camion rimorchio per caricare le corde e
per collaudarne una, la tagliarono con un'accetta. Poi salparono
da Genova su una nave russa. Alla fine gli americani pagarono bene». Ancora due domande: i cordai avevano
una loro associazione di categoria? Ognuno
aveva un suo marchio? «No, non avevano un'associazione particolare.
Alcuni erano iscritti agli artigiani, ma non esisteva un ente apposito.
Infine, soprattutto per lo spago, ogni cordaio aveva un proprio marchio,
anche se non era depositato, ma
serviva solamente per distinguere le lavorazioni. Mio padre sul suo scriveva:
“Marca Castello” di Pasetti Angelo». (1.Continua) |
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