Mestieri di una volta
I geròn
Scrive lo storico di Sant'Angelo Giovanni Pedrazzini
Sobacchi nel primo '900:«Il ponte sul Lambro Vivo, quello ora
detto di Maiano, ma sino al 1800 detto ancora di "Chigozzo",
ebbe delle vicende ricordate da interessantissimi documenti storici
autentici [...] Questo ponte, naturalmente in legno (i cavatori di
ghiaia sanno di certe punte di rovere che bisogna evitare ancora adesso
coi barconi) era gettato sul Lambro circa trecento metri a valle dell'attuale
in ferro, ed univa le due rive appena prima dell'isola, detta la Mottina,
che allora esisteva nel mezzo del fiume e che vi resistette sino al
1890 circa […]».
Uno dei luoghi più
adatti alla cavatura della ghiaia è stato il greto del Lambro
nelle adiacenze del ponte di Maiano, qui raffigurato in una cartolina
degli inizi del '900
I cavatori di ghiaia ( la gèra) che Pedrazzini Sobacchi cita,
sono quelli che il dialetto santangiolino qualifica come i geròn,
oggi scomparsi del tutto, legati alle memorie di un Lambro ancora
pulito ("Ciàr cume l'aqua del Lamber"si diceva una
volta), sul quale fino alla prima metà abbondante dello scorso
secolo, sopravvivevano diverse attività economiche.
Tra gli ultimi geròn che la storia di Sant'Angelo ricordi,
c'erano Vitùr e Bigiòn, al secolo Vittorio Ferrari,
morto nel 1967 all'età di 62 anni, che lavorò sul Lambro
assieme al fratello Luigi, morto nel 1959. Il loro ricordo, che permette
di riportare alla luce l'esperienza dei geròn del Lamber, e
di tramandarla nel tempo, è affidato a Rosanna Ferrari, figlia
di Vittorio. La storia dei Ferrari in terra lodigiana parte dal trisavolo
di Rosanna, nato in Val d'Aosta, pare a Courmayeur. Successivamente
il bisnonno, giunge in Lombardia, e intraprende l'attività
di venditore ambulante di terraglie (stoviglie in terracotta). Si
arriva così ai nonni di Rosanna: Giuseppe Ferrari, nativo di
Sant'Angelo, e Teresa Dossena, nata a Melegnano. I due si sposano
e prendono casa a Sant'Angelo, nel quartiere San Rocco, a lato della
chiesa parrocchiale, in un tipico stabile a ringhiera all'interno
di una corte chiamata comunemente el palàsi. Giuseppe Ferrari
lavora in fornace: dalla moglie Teresa ha otto figli, tre femmine
e cinque maschi. Angelo, Domenico, Carlotta, Paolo, Giovanna, Rosa
e i due futuri geròn, Vittorio e Luigi. Il primo nasce il 22
maggio 1905, si sposa con Giovanna Bertoni di Sant'Angelo nel 1930,
e ha tre figli: Antonio, Rosanna e Pinuccia. La famiglia continua
a vivere nella casa natale di Vittorio. Il fratello Luigi invece,
nasce nel 1907, e muore scapolo.
Vitùr, l'ultimo "geròn"
Quello del geròn è un lavoro duro, umile, come la maggior
parte di quelli che si fanno sull'acqua. Ore e ore a solcare il Lambro
a bordo di un barcone, l'andata controcorrente, il ritorno con la
corrente a favore, e la barca stracolma di ghiaia o di sabbia ancora
bagnata, che ondeggia paurosamente, con il bordo superiore spinto
a filo d'acqua dal peso del carico. L'immagine più esplicativa
dei geròn, li vede curvi sul barcone, che con un grande sforzo
sollevano a mano, dal fondo del Lambro, una gran cesta ovale piena
di ghiaia, facendo lavorare i muscoli.
Vittorio Ferrari inizia nel 1944, affiancato dal fratello Luigi, alle
dipendenze della società della famiglia Pozzi. La società
nasce per opera di Carlo Meazzini, morto alla fine degli anni Trenta.
Passa poi ad Angelo Pozzi, marito di Teresa Meazzini. L'ultimo proprietario
è Peppino Pozzi, fratello del maestro Rino Pozzi, che eredita
l'attività sul finire della seconda guerra mondiale.
«Mio padre Vittorio e mio zio Luigi - spiega Rosanna Ferrari
- alle due e mezza del mattino erano già in barca sul fiume.
Con il barcone, lungo circa otto metri e largo non più di tre,
di proprietà dei Pozzi, risalivano da soli il Lambro, fino
all'altezza di Vidardo e anche più sù, partendo da Sant'Angelo
e facendosi luce con una torcia o sfruttando la luna. Salivano insomma
fin che potevano, e riempivano la barca di ghiaia o di sabbia. Utilizzavano
la manara, una specie di grande cesta ovale, alta circa 70-80 cm.
Alla manara era attaccato un grande manico in legno: mandavano la
manara sul fondo del fiume, e poi la ritiravano in superficie. Ed
era talmente pesante che ci voleva la forza di due persone, dal momento
che soprattutto la sabbia, restava bagnata, inzuppata d'acqua. In
pratica è come se la strappassero dal fondo del fiume. Risalivano
la corrente con i remi a puntoni e spingevano la barca contro corrente
facendo forza sul fondo del fiume, e poi si fermavano nei punti migliori.
Lavoravano sul Lambro fino alle sette del mattino circa, solo di rado
terminavano più tardi».
La ghiaia e la sabbia venivano accumulate sul barcone. L'ormeggio
era sull'argine del Lambro, in direzione della frazione di Maiano.
Una volta attraccato il barcone, seguiva il lavoro di scarico degli
inerti, fatto rigorosamente a mano, con una barella in legno. Il materiale
veniva depositato su un ampio spiazzo, la piarda, dove veniva sagomato
in ampi cumuli a forma di piramide tronca. Vittorio e Luigi Ferrari
andavano avanti sino a mattina inoltrata.
La fatica, arrivava a scolpire pure il fisico dei possenti cavatori
di ghiaia: la descrizione che la figlia Rosanna fa del padre Vittorio,
lo caratterizza per una corporatura massiccia, fianchi stretti e muscoli
scolpiti, frutto degli sforzi per sollevare la manara dal fondo del
fiume. I geròn lavoravano a torso nudo, con indosso solo un
paio di calzoncini.
Lavorando sul Lambro, i cavatori diventavano dei lupi di fiume, che
ne conoscevano ogni ansa, ogni mulinello, ogni punto più o
meno profondo. Imparavano a riconoscere pericoli e buche, che molto
spesso si portavano via vite umane. E proprio per la loro simbiosi
con il fiume, i geròn custodivano meglio di chiunque altro
i segreti del Lambro, e quasi sempre riuscivano a riportare a riva
i corpi senza vita degli annegati, laddove le squadre di soccorso
trovavano mille difficoltà.
Nel contesto di una Sant'Angelo in cui le industrie dovevano ancora
nascere, e le poche che c'erano non riuscivano a sopperire al gran
bisogno di lavoro, la figura del geròn ben rappresenta uno
di quei mestieri di cui oggi la memoria tende a far difetto.
Nella seconda metà del 1900, anche a Sant'Angelo arrivarono
progresso e sviluppo, e i cavatori di ghiaia scomparvero. Lasciarono
però un ricordo, fatto di fatica, di lavoro, e di rispetto
per le acque del fiume Lambro, che almeno loro, riuscirono a contemplare
come fonte di vita e di ricchezza.
Lorenzo Rinaldi