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i pescatori


ANNO 8 - N. 1 (Versione web - anno 5 n.1) NUOVA SERIE FEBBRAIO 2004

MESTIERI DI UNA VOLTA

I pescadù d’la Costa

L’origine dei pescatori della Costa -i pescadù-, uno tra i lavori più antichi di Sant’Angelo, oggi del tutto estinto, non è ben definita. Essa appare come il frutto di un insieme di più fattori, i quali, agendo l’un con l’altro, hanno fatto sì che in un unico quartiere, peraltro di dimensioni modeste pur a fronte di un’elevata densità abitativa, si concentrasse un alto numero di nuclei familiari che vivevano quasi esclusivamente di pesca.
La condizione sociale dei pescatori non era elevata, spesso le famiglie avevano parecchi figli, così che i proventi della pesca bastavano giusto per sfamarli.
La professoressa Fiammetta Zanaboni, ricercando le cause della nascita dei pescatori proprio alla Costa e non altrove, scrive: «(…) E’ stata importante la vicinanza col fiume Lambro, che lambisce il territorio del quartiere in tutta la sua lunghezza. Probabilmente il fiume aveva costituito una possibilità di sopravvivenza e di piccolo commercio per i più diseredati della popolazione ed in seguito (…) si era mutato in una fonte di ispirazione per un tipo di attività che poteva essere svolta anche altrove, lungo gli altri fiumi ed i canali artificiali della Pianura Padana (…). Per quel che riguarda il mercato ittico, fino ai tempi più recenti non era possibile, nell’alta Italia, un rifornimento costante di pesce proveniente dal mare per la lentezza dei trasporti; per ovviare al fabbisogno quotidiano era quindi necessario il commercio con i pescatori d’acqua dolce (…)». (“La costa di Sant’Angelo Lodigiano: dinamiche culturali in una condizione di marginalità”, Archivio storico lodigiano, 1979).
Due erano le tipologie di pescatore che si potevano rintracciare: il pescatore pendolare e quello stabile. Certamente siamo di fronte ad una distinzione che va interpretata con una buona dose di elasticità, dal momento che si trattava di un lavoro d’impianto precario, e pertanto poteva accadere che uno stesso soggetto pescasse un po’ nel Lodigiano e un po’ in altre province.
Il pescatore pendolare, generalmente lasciava la Costa in compagnia di altri pescatori, stando lontano da casa diversi giorni, per dirigersi nelle campagne della Lomellina, dove abbondava la coltura del riso. Altri invece si accontentavano di esercitare la professione nelle campagne attorno a Sant’Angelo, nei fossati e nelle risaie, oppure nel fiume Lambro. Un mercato importante per il pesce era Milano, e tanto i pescatori che emigravano in Lomellina, tanto quelli che restavano a Sant’Angelo, facevano sovente riferimento al capoluogo per vendere il pescato.
Al riguardo, interessante è la ricostruzione fatta dalla professoressa Zanaboni: «(…) La maggior parte dei pescatori della Costa lavorava solo da marzo ai primi di novembre (…). Di solito i pescatori si allontanavano parecchio da Sant’Angelo (…). Partivano a gruppi di tre o quattro, portando con sé i figli adolescenti. Trovavano alloggio nelle cascine (…). Marzo e aprile erano i mesi più favorevoli per la pesca (...). C’erano invece altri pescatori che non si allontanavano molto da Sant’Angelo, partivano verso le 15.30 del pomeriggio per le rogge del Lodigiano e tornavano a casa ogni mattina alle quattro o alle cinque».
La pesca nei fossati che percorrono le campagne lodigiane, avveniva con una rete, collegata ad un lungo bastone. La rete, chiamata da alcuni müson, oppure rüson, permetteva di arrivare sul fondo del corso d’acqua, e di catturare, assieme ai pesci, anche terriccio e fango, che poi aumentavano il peso del pescato, e permettevano ai pescatori di guadagnare qualche spicciolo in più. Taluni lavoravano durante la notte, ma altri uscivano di casa di buon mattino, per far ritorno verso le 11.30, portando con sé, oltre al pesce, spesso tenuto in uno scurbén, anche qualche fascina di legna.
C’era poi la pesca nel fiume Lambro. In questo caso, sovente, alcuni pescatori si accordavano per battute di pesca notturne e clandestine. La clandestinità era legata al fatto che la tecnica adottata non era lecita. Spesso infatti si pescava con l’aiuto di sostanze chimiche, ad esempio il cloro, che liberato nell’acqua intontiva, anche se in misura modesta, i pesci, rendendo così più semplice la loro cattura grazie alle reti che venivano tirate.
La pesca delle rane, a differenza di quella del pesce, talvolta avveniva non con le reti, ma a mani nude, entrando scalzi nei campi irrigati. La notte, per questo tipo di pesca, i pescadù si servivano di una lampada, chiamata, in dialetto, centilena. Era formata da una boccia inferiore in metallo, che conteneva carburo. Vi era poi un contenitore superiore, sempre in metallo, che conteneva acqua, la quale cadeva lentamente, di goccia in goccia, nel contenitore sottostante. In questo modo si formava gas, che una cannuccia raccoglieva ed indirizzava verso l’esterno, dove una sorta di piccolo imbuto racchiudeva la fiamma, in modo tale che la luce non si disperdesse.
Il numero dei pescatori si è ridotto drasticamente negli anni successivi alla prima guerra mondiale. La Costa è passata da un quartiere a prevalente presenza di pescatori, a quartiere con prevalente presenza di ambulanti. Entrambe la attività sono caratterizzate da lavoro autonomo e non subordinato.
Gli Stati d’Anime (Archivio parrocchiale di Sant’Angelo) del 1901, registro di Borgo Santa Maria, zona della Costa, riportano un totale di 165 famiglie, e di 71 pescatori. Gli Stati d’Anime del 1943, della zona della Costa, riportano invece un totale di 187 famiglie, e di 18 pescatori, con un vistoso incremento del numero di ambulanti, e dei militari, impegnati in quegli anni di guerra.
Sull’estinzione di questa attività economica, un ultimo riferimento al lavoro della professoressa Zanaboni, è il seguente: « (…) La prima guerra mondiale portò ad una stasi anche tra i pescatori della Costa, ma dopo il periodo di stallo ci si accorse di quanto questo tipo di attività si facesse poco redditizia e non presentasse alcuna garanzia di stabilità (…). Lo spazio per il pescatore d’acqua dolce si era vieppiù ristretto. Era aumentata la richiesta di pesce marino (…) che poteva in quegli anni raggiungere anche le grandi città del Nord con una celerità maggiore rispetto al passato (…). Per questo tipo di pesca era sempre stata necessaria una licenza che però quasi nessuno aveva mai posseduto. I danni per questa mancanza non erano poi così gravi: si trattava di pagare una multa ogni tanto (...). Con il sopraggiungere del fascismo però i controlli si fecero più efficaci (…) piuttosto di essere costretti a richiedere una licenza, gli uomini della Costa preferirono cambiare lavoro».
Si chiude così il quadro introduttivo sull’attività dei pescadù. Sul prossimo numero de “Il Ponte“ verranno riportate le testimonianze dirette che hanno rilasciato due figlie di altrettanti pescatori, originari della Costa.
Lorenzo Rinaldi