MESTIERI DI UNA VOLTA
I pescadù d’la Costa
L’origine dei pescatori della Costa -i pescadù-,
uno tra i lavori più antichi di Sant’Angelo, oggi del
tutto estinto, non è ben definita. Essa appare come il frutto
di un insieme di più fattori, i quali, agendo l’un con
l’altro, hanno fatto sì che in un unico quartiere, peraltro
di dimensioni modeste pur a fronte di un’elevata densità
abitativa, si concentrasse un alto numero di nuclei familiari che
vivevano quasi esclusivamente di pesca.
La condizione sociale dei pescatori non era elevata, spesso le famiglie
avevano parecchi figli, così che i proventi della pesca bastavano
giusto per sfamarli.
La professoressa Fiammetta Zanaboni, ricercando le cause della nascita
dei pescatori proprio alla Costa e non altrove, scrive: «(…)
E’ stata importante la vicinanza col fiume Lambro, che lambisce
il territorio del quartiere in tutta la sua lunghezza. Probabilmente
il fiume aveva costituito una possibilità di sopravvivenza
e di piccolo commercio per i più diseredati della popolazione
ed in seguito (…) si era mutato in una fonte di ispirazione
per un tipo di attività che poteva essere svolta anche altrove,
lungo gli altri fiumi ed i canali artificiali della Pianura Padana
(…). Per quel che riguarda il mercato ittico, fino ai tempi
più recenti non era possibile, nell’alta Italia, un rifornimento
costante di pesce proveniente dal mare per la lentezza dei trasporti;
per ovviare al fabbisogno quotidiano era quindi necessario il commercio
con i pescatori d’acqua dolce (…)». (“La costa
di Sant’Angelo Lodigiano: dinamiche culturali in una condizione
di marginalità”, Archivio storico lodigiano, 1979).
Due erano le tipologie di pescatore che si potevano rintracciare:
il pescatore pendolare e quello stabile. Certamente siamo di fronte
ad una distinzione che va interpretata con una buona dose di elasticità,
dal momento che si trattava di un lavoro d’impianto precario,
e pertanto poteva accadere che uno stesso soggetto pescasse un po’
nel Lodigiano e un po’ in altre province.
Il pescatore pendolare, generalmente lasciava la Costa in compagnia
di altri pescatori, stando lontano da casa diversi giorni, per dirigersi
nelle campagne della Lomellina, dove abbondava la coltura del riso.
Altri invece si accontentavano di esercitare la professione nelle
campagne attorno a Sant’Angelo, nei fossati e nelle risaie,
oppure nel fiume Lambro. Un mercato importante per il pesce era Milano,
e tanto i pescatori che emigravano in Lomellina, tanto quelli che
restavano a Sant’Angelo, facevano sovente riferimento al capoluogo
per vendere il pescato.
Al riguardo, interessante è la ricostruzione fatta dalla professoressa
Zanaboni: «(…) La maggior parte dei pescatori della Costa
lavorava solo da marzo ai primi di novembre (…). Di solito i
pescatori si allontanavano parecchio da Sant’Angelo (…).
Partivano a gruppi di tre o quattro, portando con sé i figli
adolescenti. Trovavano alloggio nelle cascine (…). Marzo e aprile
erano i mesi più favorevoli per la pesca (...). C’erano
invece altri pescatori che non si allontanavano molto da Sant’Angelo,
partivano verso le 15.30 del pomeriggio per le rogge del Lodigiano
e tornavano a casa ogni mattina alle quattro o alle cinque».
La pesca nei fossati che percorrono le campagne lodigiane, avveniva
con una rete, collegata ad un lungo bastone. La rete, chiamata da
alcuni müson, oppure rüson, permetteva di arrivare sul fondo
del corso d’acqua, e di catturare, assieme ai pesci, anche terriccio
e fango, che poi aumentavano il peso del pescato, e permettevano ai
pescatori di guadagnare qualche spicciolo in più. Taluni lavoravano
durante la notte, ma altri uscivano di casa di buon mattino, per far
ritorno verso le 11.30, portando con sé, oltre al pesce, spesso
tenuto in uno scurbén, anche qualche fascina di legna.
C’era poi la pesca nel fiume Lambro. In questo caso, sovente,
alcuni pescatori si accordavano per battute di pesca notturne e clandestine.
La clandestinità era legata al fatto che la tecnica adottata
non era lecita. Spesso infatti si pescava con l’aiuto di sostanze
chimiche, ad esempio il cloro, che liberato nell’acqua intontiva,
anche se in misura modesta, i pesci, rendendo così più
semplice la loro cattura grazie alle reti che venivano tirate.
La pesca delle rane, a differenza di quella del pesce, talvolta avveniva
non con le reti, ma a mani nude, entrando scalzi nei campi irrigati.
La notte, per questo tipo di pesca, i pescadù si servivano
di una lampada, chiamata, in dialetto, centilena. Era formata da una
boccia inferiore in metallo, che conteneva carburo. Vi era poi un
contenitore superiore, sempre in metallo, che conteneva acqua, la
quale cadeva lentamente, di goccia in goccia, nel contenitore sottostante.
In questo modo si formava gas, che una cannuccia raccoglieva ed indirizzava
verso l’esterno, dove una sorta di piccolo imbuto racchiudeva
la fiamma, in modo tale che la luce non si disperdesse.
Il numero dei pescatori si è ridotto drasticamente negli anni
successivi alla prima guerra mondiale. La Costa è passata da
un quartiere a prevalente presenza di pescatori, a quartiere con prevalente
presenza di ambulanti. Entrambe la attività sono caratterizzate
da lavoro autonomo e non subordinato.
Gli Stati d’Anime (Archivio parrocchiale di Sant’Angelo)
del 1901, registro di Borgo Santa Maria, zona della Costa, riportano
un totale di 165 famiglie, e di 71 pescatori. Gli Stati d’Anime
del 1943, della zona della Costa, riportano invece un totale di 187
famiglie, e di 18 pescatori, con un vistoso incremento del numero
di ambulanti, e dei militari, impegnati in quegli anni di guerra.
Sull’estinzione di questa attività economica, un ultimo
riferimento al lavoro della professoressa Zanaboni, è il seguente:
« (…) La prima guerra mondiale portò ad una stasi
anche tra i pescatori della Costa, ma dopo il periodo di stallo ci
si accorse di quanto questo tipo di attività si facesse poco
redditizia e non presentasse alcuna garanzia di stabilità (…).
Lo spazio per il pescatore d’acqua dolce si era vieppiù
ristretto. Era aumentata la richiesta di pesce marino (…) che
poteva in quegli anni raggiungere anche le grandi città del
Nord con una celerità maggiore rispetto al passato (…).
Per questo tipo di pesca era sempre stata necessaria una licenza che
però quasi nessuno aveva mai posseduto. I danni per questa
mancanza non erano poi così gravi: si trattava di pagare una
multa ogni tanto (...). Con il sopraggiungere del fascismo però
i controlli si fecero più efficaci (…) piuttosto di essere
costretti a richiedere una licenza, gli uomini della Costa preferirono
cambiare lavoro».
Si chiude così il quadro introduttivo sull’attività
dei pescadù. Sul prossimo numero de “Il Ponte“
verranno riportate le testimonianze dirette che hanno rilasciato due
figlie di altrettanti pescatori, originari della Costa.
Lorenzo Rinaldi