Il ricordo dei morti: el murtori, luogo di ricordi e di storia

Orgoglio santangiolino
Quarta e ultima parte (sempre con Giovanni): i Cortese, i miei nonni, i santangiolini dell’Ottocento, i Manzoni, i Tonolli, il dott. Bertolotti.

La prima parte la trovate sul numero 1 febbraio-marzo del 2022,
la seconda parte sul numero 2 di maggio-giugno
e la terza parte sul numero 3 di settembre-ottobre

di Emanuele Maestri


«Giovanni, dopo aver abbondantemente parlato dei preti santangiolini, ora dedichiamoci alla cappella che troviamo subito a destra. Cosa leggi?».
«Papà, leggo che è riservata alla famiglia Cortese».
«Ti viene in mente qualcosa leggendo il cognome Cortese?».
«Sì, mi viene in mente la villa Cortese, quella bella costruzione che si trova vicino all’intersezione di via della Costa con largo Santa Maria, vicino a dove abita nonno Antonio».

«Esatto, Giovanni! I Cortese hanno legato il proprio nome alla bella villa prospiciente il Lambro meridionale. Ma andiamo con ordine: direi che possiamo parlare, qui, della famiglia, riservando la descrizione e la storia della struttura quando, dal cimitero, ci sposteremo in paese per fare un giro nei borghi e nei quartieri: fareme quater pasi in gir per Sant’Angel per cuntasla su un po’. Sei d’accordo?».
«Certo, sono d’accordo, però questa volta portiamo con noi la mamma e Francesca così anche mia sorella potrà conoscere un po’ di storia santangiolina e la mamma capire che “Sant’Angel e po pü”, come diceva sempre bisnonna Cristina. La storia, papà, mi piace: è molto importante per afferrare il perché di tante cose. Sono curioso di conoscere le mie origini santangioline, i luoghi in cui visse il mio omonimo bisnonno Giovanni con bisnonna Cristina e nonna Bassanina, la tua mamma».
«Va bene Giovanni, la tua proposta mi sembra azzeccata: faremo così! Conoscerai la storia della nostra famiglia, che almeno dal Seicento si è stabilita in Sant’Angelo e sempre in Busantamaria. Come sosteneva il matematico e filosofo Leibniz “il presente è gravido dell’avvenire e carico del passato”, di quella storia personale che umanamente ci trasmettiamo con i cromosomi di genitori in figlio, perché noi siamo la somma di chi è stato prima di noi. Tutto ha un senso, lo deve avere per forza, perché solo gli “occhi penetranti di Dio possono leggere la concatenazione delle cose dell’universo”. Insomma, Giò, tutto ha un senso, anche quando facciamo fatica ad afferrarlo, perché chi sta sopra di noi (Dio) agisce sempre per il nostro bene, perché “quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili (Leibniz)”».
«Ma adesso dimmi un po’, papà: perché la famiglia Cortese è così importante?».
«Lo è per la villa, certo, ma soprattutto per Francesco Cortese. Giovane molto devoto, a un certo punto sentì la chiamata di Gesù ed entrò in seminario a Lodi, ma per la salute malandata dovette desistere; si dedicò, allora, agli studi in legge e, successivamente alla laurea, sulle orme del padre, divenne magistrato. Sposò, a Sant’Angelo, Virginia Sala; nel 1851, una grave malattia lo colpì; ne uscì, ma dovette rinunciare alla carriera in magistratura. Decise, quindi, di dedicare la sua esistenza, in omaggio alla Madonna, ai più poveri, attraverso la realizzazione di opere di carità. S’impegnò anche nella vita pubblica e divenne sindaco di Sant’Angelo (il terzo) dal 1864 al 1869; durante il suo mandato si prodigò molto per rendere il paese vivibile e per migliorare la vita dei santangiolini delle zone più popolari, tipo la “nostra” Costa. Andiamo avanti… Giovanni, cerca di osservare bene: cosa ti colpisce qui, all’angolo nord-ovest del vecchio cimitero?».
«Papà, vedo dei loculi molto antichi, di persone nate e morte nell’Ottocento…».
«Eh già, è proprio vero Giovanni: qui ci sono diversi loculi di santangiolini che nacquero a metà Ottocento, proprio quando nella nostra cittadina, allora paesone, vide la luce Francesca Cabrini, la santangiolina d’America. I cognomi che si leggono sono i medesimi d’oggi. Ancor più interessante è ammirare le poche fotografie rimaste: ritraggono volti pieni di dignità, onore, serenità. Sono lì, in quel posto, dal 1924, da quando il prefetto di Milano soppresse definitivamente il vecchio cimitero di via Mazzini e il Comune decise di costruire un ossario in quello nuovo per ospitare le ultime tombe rimaste. Se le cappelle dei notabili santangiolini sono memoria perpetua di chi decise di impegnarsi pubblicamente per il bene della comunità, quest’ossario è testimonianza della gente comune, magari povera economicamente, ma ricca di dignità e amor proprio. Sono una rappresentanza dei santangiolini dell’Ottocento!».
«Papà, devo dirti che la gente comune è quella che mi trasmette più simpatia: vedendo i volti dei nostri vecchi, dei bisnonni, dei trisavoli Giovanni e Gaetana, Domenico e Francesca inizio a capire il perché di tante cose».
«Dimmi Giovanni, cosa hai capito?».
«Ho compreso l’importanza del passato, di chi ci ha preceduto, di chi vive in noi attraverso la trasmissione cromosomica. Capisco perché è così importante la storia, che a volte sembra pesante da studiare, ma che se ti riguarda da vicino diventa interessante, parte di te».
«È vero, non è un vezzo sapere il proprio passato: la storia fa presa se arriva al cuore, alla mente ed è allora che dà benefici, sul momento ma anche e soprattutto per il futuro, perché conoscerla permette di non commettere più gli errori del passato. Giovanni, quello che devi evitare sempre è di vivere nell’ignoranza; quell’ignoranza che porta all’indifferenza; quell’indifferenza che porta alla compressione della libertà e che va sempre contrastata con intelligenza, con il buon esempio, con i valori».
Percorrendo il lato ovest, ci imbattiamo, poco più in là, nella cappella della famiglia Manzoni.
«Giovanni, ora siamo davanti alla cappella della famiglia Manzoni, una famiglia che segnò, per almeno un secolo, la vita di Sant’Angelo, contribuendo allo sviluppo economico e all’occupazione della popolazione e che diede alla comunità due sindaci: Angelo e Giancarlo, rispettivamente padre e figlio. I Manzoni arrivarono in riva al Lambro intorno al 1850: i capostipiti Angelo e Carlo, commercianti in ferro, provenienti da Olate, nel lecchese, aprirono il loro primo laboratorio proprio in borgo San Rocco; erano cristianoni e il prevosto don Bassano Dedè, nei registri parrocchiali, l’annotò a margine. Angelo si inserì nell’ambiente locale e dopo l’Unità d’Italia divenne consigliere comunale; il fratello Carlo ne seguì le orme. Il figlio di Carlo, Giuseppe (l’altro figlio, Cesare, si fece sacerdote, raggiunse il rango di monsignore e divenne prevosto di Casalpusterlengo), diede ulteriore slancio all’impresa e nel 1898, alla Massaia, impiantò una fabbrica di aratri e una fonderia di ghisa; fu amministratore comunale, membro della Congregazione di Carità, amministratore dell’Ospedale Delmati e benefattore dell’Asilo infantile Vigorelli. Amò particolarmente Busanroche: fu sua l’idea di istituire la fiera annuale in onore del patrono, ancora oggi molto sentita. L’eredità industriale e politica di Giuseppe passò al figlio Angelo, il quale fu sindaco in quota del Partito Popolare Italiano (partito che contribuì a fondare nel paese insieme a Pietro Vigorelli, marito della sorella Agnese, che fu tra i primi tesserati del PPI e stretto collaboratore di don Sturzo). Suo erede fu Giancarlo, che continuò l’impegno politico nella DC, divenendo a sua volta sindaco dal 1965 al 1969: durante i suoi anni si ebbe l’edificazione del quartiere Pilota (360 appartamenti e 2000 abitanti: un paese nel paese) e la costruzione del nuovo Delmati».
«Quindi, papà, a Sant’Angelo, tutti lavoravano dai Manzoni?».
«No, Giovanni: a Sant’Angelo parecchie persone lavoravano, sì, nella fonderia dei Manzoni, ma vi erano molte altre attività imprenditoriali di rilevanti dimensioni. Quelle che conosco io furono lo stabilimento tessile Colombo, quello della brillatura del riso dei Vigorelli, le aziende Pelli e Savaré, le officine meccaniche Morzenti, il deposito di burro Mascheroni, gli amaretti Nosotti e Gatti, la fabbrica di acque e gazzosa e seltz Minoja, i fiammiferi Marinoni, senza dimenticare le centinaia di artigiani che in Borgo San Martino fabbricavano la corda. I santangiolini, devi sapere, sono, da sempre, dediti al commercio (pensa un po’ che abbiamo testimonianze storiche che ci dicono che i santangiolini erano mercanti di tessuti sin dal Cinquecento, con zone di vendita sino nelle repubbliche di Venezia e Genova)».
«Bene, bene! I santangiolini hanno una storia interessante, che non ha nulla da invidiare a quella che si studia sui libri. Ora dove andiamo, papà?».
«Ora andiamo più in là, dove troveremo la cappella dei Tonolli, una famiglia che si spese per la comunità nazionale e locale: Carlo morì nell’impresa garibaldina dei Mille e Silvestro fu più volte sindaco e podestà del paese, per ben 21 anni. Quest’ultimo fu un personaggio molto in vista dai primi del Novecento sino al 1944. Sotto la sua prima amministrazione molte vie del paese cambiarono nome: i santi lasciarono il posto agli eroi del Risorgimento e nel 1921 inaugurò la biblioteca. Di provata fede nazionalista, affascinato dal Vate D’Annunzio, durante il Primo conflitto mondiale, seppur sindaco, decise di arruolarsi nel Regio esercito. Andò in guerra, combatté, tornò a Sant’Angelo e si riprese il posto lasciato vacante. A seguito della confluenza del partito Nazionalista in quello Fascista ne divenne referente. Venne eletto nuovamente sindaco e poi nominato podestà: fu fedele a Mussolini sino alla fine, ma suo figlio Alessandro, nel 1943, dopo la firma dell’Armistizio, intraprese la lotta partigiana come comandante della Sesta Brigata Giustizia e Libertà sul Monte Penice, con il suo consenso. Morì, anziano, nel 1974.
Giovanni, abbiamo quasi finito; però, farei ancora due tappe. Una è questa, all’angolo sud-ovest, alla cappella commemorativa dei caduti in guerra. Cosa ne pensi?».
«Va bene, papà. Facciamo queste due ultime tappe, perché si è fatto tardi e la storia, seppur bella e interessante, va assunta come una medicina: a piccole dosi, se no se capis pü gnèn»
«Giovanni, quando mi soffermo davanti a questa cappellina penso alla gioventù strappata a tanti ragazzi d’inizio XX secolo; penso loro perché diedero la vita per un ideale facendo ben due guerre per la libertà, per un mondo migliore, per la sostituzione della tirannide con la democrazia. Fa bene, Giovanni, fermarsi un attimo, fa bene pregare per le loro anime, fa bene a loro e fa bene a noi perché possiamo pensare all’Italia come era allora: se oggi siamo liberi lo dobbiamo a loro che combatterono per un futuro migliore, per loro e per le generazioni future.

Erano poco istruiti, non sapevano come declinare nella realtà il concetto di libertà, nemmeno sapevano di combattere per quella delle generazioni future, molti non erano in grado né di leggere né di scrivere (ebbene, sì, perché le guerre le combattono, sul campo, i poveri, la gente del popolo; e sono i poveri, il popolo che alla fine fanno sacrifici), ma fecero la loro parte e la fecero bene. A questi eroi dobbiamo un grazie immenso, perché combattendo nella Prima e nella Seconda guerra mondiale diedero prova di abilità militare, coraggio, senso del dovere, intelligenza tattica e nel momento decisivo seppero schierarsi dalla parte giusta, quella del bene. Quel bene che non ha sempre confini ben precisi, Giovanni. Ti racconto cosa fecero i finanzieri nel periodo in cui nacque la Repubblica Sociale Italiana, quando furono costretti a sostituire le stellette a cinque punte (come quelle che porto io sulle fiamme giallo-verdi) con un nuovo emblema (il gladio fascista). Ebbene: nelle occasioni ufficiali, davanti alle autorità, indossavano quelle con il gladio; nelle attività operative, lontano dai luoghi in cui si trovavano presidi delle camicie nere, portavano quelle con la stella a cinque punte, segno di fedeltà al Re e all’Italia ufficiale. Seppero, insomma, usare un po’ di furbizia: così facendo, soprattutto nella zona della Legione di Como, misero in salvo centinaia di ebrei in Svizzera. Erano, sì, in forza alla R.S.I. ma erano comunque schierati per la libertà, per il bene. Pensa che Pavia e Milano furono liberate proprio dalla Guardia di Finanza».
«Non ci resta che l’ultima tappa! Giovanni proseguiamo sul lato sud del cimitero, avviamoci verso l’uscita: cerca di guardare bene a destra». «Papà, guarda che foto grande che c’è qui; c’è scritto: Servo di Dio, Giancarlo Bertolotti ...cosa vuol dire papà Servo di Dio?»
«Servo di Dio è il titolo che la Chiesa assegna, dopo la morte, a persone che ritiene si siano distinte per santità di vita e per le quali è stato avviato il processo di beatificazione. Davanti alla tomba del dott. Bertolotti il cerchio si chiude, Giovanni. Il nostro viaggio da novelli Virgilio e Dante termina: è stato un percorso (non esaustivo: non abbiamo citato personaggi di rilievo, ma il tempo, aimè, è limitato) che ha avuto inizio al monumento ai bimbi non nati, posto all’ingresso del campo santo, e termine con il dottore della vita, fautore dei metodi di procreazione naturali, il quale si spense, troppo presto, a seguito di un incidente stradale alla rotonda del rusen, mentre si recava ad assistere una partoriente all’ospedale di Pavia. Il dottore lo ricordo alla messa in cesa granda e in occasione del referendum del 2005, quando si impegnò per mantenere l’attuale legge sulla fecondazione assistita. Mons. Carlo Ferrari, nell’omelia del suo funerale, lo definì propugnatore di “amore pieno, espressione dell’anima e del corpo, capace di unire veramente e per sempre gli sposi: di renderli strumenti consapevoli della fecondità divina e della sua presenza e potenza creatrice”. Il nostro viaggio, Giovanni, non è stato fatto nel regno della morte, come potrebbe apparire visto il luogo, ma in quello della vita, perché da sempre l’uomo crede che qualcosa, dopo questo peregrinare terreno, c’è: perché, in fondo, la morte è l’altra faccia della vita, quella eterna, cui tutti, anche senza saperlo, bramiamo».